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Time

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Time

di Ugogigio
7 stelle

Non posso provare che un senso di profonda amarezza nel constatare quanto accanitamente questa pellicola sia stata bistrattata e percossa dalla critica, che l'ha persino additata come punto di snodo e irrimediabile flesso di una parabola autoriale avviata ormai fatalmente alla sua fase calante.

Ammetto di non avere ancora piena contezza dell'intero percorso filmografico del prolifico regista, dato che la stragrande maggioranza delle critiche si appunta su un confronto tutto in negativo tra le sue glorie trascorse e la mediocrità della stagione recenziore, perciò mi limiterò a registrare le impressioni suscitatemi dalla singola visione, ritenendo anzi che la convenienza di instaurare rapporti tra opere contigue nel tentativo di darne una valutazione non debba essere interpretata come un metro di giudizio corrivo che ne ignori le specifiche singolarità.

Quest'opera è stata tacciata in particolare di artificiosa programmaticità ed eccesso di didascalismo, che nasconderebbero la sostanziale assenza di un'autentica ispirazione artistica sotto una fitta coltre di simboli e un'arida intelaiatura allegorica banalmente intelligibili, con la diretta conseguenza di una stanca ripetitività e di una prevedibilità meccanica nel procedere della trama.

E in effetti la simmetria e la circolarità del film sono studiate alla perfezione, con scrupolo geometrico e fredda lucidità, e le scene sembrano susseguirsi con la rigorosa conseguenza di un processo logico, sottolineata anche da continui richiami speculari.

Brevemente: una donna subisce una plastica facciale (sembrerebbe la protagonista); all'uscita si scontra con una passante che si rivela la vera protagonista; Seh-hee e Ji-woo sembrano una coppia felice ma lei è oppressa da gravi angosce; Seh-hee scompare improvvisamente e si sottopone a una plastica facciale; Ji-woo soffre ma tenta nuove relazioni e qualcuno sembra ostacolarlo; la misteriosa donna bendata; Ji-woo conosce See-hee; See-hee e Ji-woo sembrano una coppia felice ma lei è oppressa da gravi angosce; See-hee non è altri che Seh-hee con un nuovo volto; Ji-woo scompare improvvisamente e si sottopone a una plastica facciale; il misterioso uomo bendato; See-hee cerca Ji-woo in vari uomini e qualcuno sembra spiarla; Ji-woo (?) muore; See-hee si sottopone a una nuova plastica facciale; all'uscita si scontra con una passante che si rivela Seh-hee.

Una siffatta struttura potrà forse (ma non è così) soffocare l'afflato poetico nella ripetitività situazionale, ma non mi si neghi che abbia un che di geniale, tralasciando il fatto che dimostra anche una notevole abilità e perizia narrativa. Insomma l'evidente pianificazione a tavolino che sta dietro al film certamente va a discapito della spontaneità del tutto, ma costituisce per me anche un motivo di fascino non indifferente: tutto è perfettamente incasellato, tutto torna.

Si consideri poi che ci sono almeno due valide ragioni a giustificare l'artificiosità di fondo della costruzione di Ki-duk.

La struttura che viene a delinearsi infatti non è tanto quella di un cerchio perfetto, quanto una struttura sfasata a nastro continuo (mi verrebbe da dire di Moebius), un loop infinito avvitato su sé stesso in cui i protagonisti sembrano destinati ad essere imprigionati per l'eternità senza via di scampo. Ed ecco che allora ci si spiega il perché della prevedibilità meccanica delle loro azioni: perché il loro agire non fa che adeguarsi ai binari prestabiliti di un ordine superiore che ne muove i fili come fossero marionette.

Quest'entità imperante è appunto il Tempo che dà il titolo al film, esplorato dal regista in maniera indiretta ed implicita, mai esibita (altro che didascalismo), tanto che solo in un punto della sceneggiatura lo si nomina apertamente. Si tratta del tempo come supremo regolatore dell'esistenza umana, legge a cui non ci si può sottrarre e da cui dipende ogni aspetto, perfino il più triviale, dell'esistenza: ogni scelta, ogni ansia, ogni desiderio, ogni aspirazione umana ha la sua ragione di essere nell'inevitabile fluire della corrente del tempo, cui l'uomo si ritrova costretto. Ki-duk ne osserva il riflesso nelle psicotiche angosce che tormentano la protagonista, non tanto direttamente e semplicemente la paura della vecchiaia e della morte dovute alla consunzione del tempo, quanto all'opposto il timore di "avere sempre la stessa faccia noiosa", che significa sostanzialmente il senso di limitatezza e inadeguatezza della propria individualità rapportata allo scorrere del tempo, da cui la volontà di un rinnovamento che si attua a livello di superficie.

E qui veniamo al secondo tema portante del film, anche in questo caso funzionalmente esaltato dalla sua struttura: quello della fragilità e dell'illusorietà della nozione di identità. Ultimata la trasformazione del volto, Seh-hee sprofonda infatti in un dramma pirandelliano senza soluzione che non fa che accrescere e ampliare le sue angosciose sofferenze, andando ad investire la percezione stessa che ella ha della propria specificità e portandola ad una vera e propria crisi identitaria.

Sostanzialmente il paradossale dilemma che le si presenta è il seguente: se ora Ji-woo si innamorasse di lei significherebbe che non l'ama veramente, perché, ignorandone egli la vera identità, sarebbe come se amasse un’altra donna, perciò per amarla davvero egli non se ne dovrebbe innamorare. In entrambi i casi per lei non c'è che sofferenza e la domanda che le sorge spontanea è "Qual è il grado di solidità della mia essenza se essa può essere incrinata da un mero cambiamento di forma? La mia identità è legata alla percezione che gli altri hanno di essa?". L'esito di questo dissidio non può essere che la definitiva dissociazione esistenziale e mentale, che si verifica nel momento in cui See-hee/Seh-hee scrive il finto (?) invito da parte di Seh-hee/See-hee, indossando poi all’incontro la sua maschera ritagliata.

Dovrebbe essere ora chiaro che dietro questa simbologia non c’è solo un semplice atto d’accusa verso l’etica della superficie che domina la società contemporanea, come molti critici hanno corrivamente sostenuto, ma una ben più profonda e non banalmente fruibile riflessione sulla natura convenzionale del concetto d’identità e la sua reale polimorfica fluidità.

Ma c’è di più, perché nella parte conclusiva del film si giunge ad affermare addirittura la sostanziale inanità di tale nozione, prima nella concettualmente strabiliante sezione della “ricerca” di Ji-woo, che altro non è che la ricerca della sua identità dispersa in un mare infinito di altre identità mutuamente scambiabili con essa (non sapremo mai se è veramente morto, se era l’uomo bendato che spiava See-hee o se non l’abbiamo neanche visto dopo l’operazione), poi nella chiusura del loop con lo scontro finale di See-hee con sé stessa che replica perfettamente la scena iniziale, che perciò a posteriori sembra quasi dirci: non importa chi sia stata la protagonista di questo film, avrebbe potuto essere un’altra, avrebbe potuto essere chiunque, perfino voi.

In questo senso sì certe scene mi sembrano didascaliche, come quella della folla che subito segue, in cui potrebbe trovarsi senza che a noi sia dato saperlo il nuovo avatar di Seh-hee, o quella in cui un’infermiera indossa la maschera di See-hee dicendo “mi sta proprio bene!”, poco prima che questa la riduca a pezzetti (forse risolvendo la sua scissione interiore, dato che nella parte finale il polo oscillante sembra spostarsi su Ji-woo), così come la brillante scelta di variare alternatamente la focalità dei personaggi.

Appurato che secondo me la simbologia che percorre la pellicola è tutto fuorché scontata (anzi, ci sono elementi che sinceramente non saprei dove collocare, in primis il tanto sottolineato parco delle sculture, con le sue conchiglie, mani intrecciate e statue in posizioni erotiche, a meno che non venga a significarmi l’amore, dato che è qui che si creano i legami di coppia del film e dato che la scena finale, successiva alla definitiva separazione dei due protagonisti, mostra una sola delle due mani della scultura), mi sento di dire anche che l’ispirazione e la poeticità non ne risultano affatto ammazzate, anche se evidentemente non siamo ai livelli di film come Ferro 3 o L’Isola, in cui la mancanza di filtri concettuali permetteva ovviamente un’espressione più diretta e potente dell’ispirazione poetica.

Contribuisce notevolmente in senso poetico il lato tecnico del film, che si fa notare soprattutto per un uso originale della profondità di campo, drammatici scavalcamenti di campo a scopo artistico e in generale un montaggio trattato creativamente.

Per concludere, Time avrà pure le sembianze di un film a tesi, ma i suoi contenuti sono ben più profondi e nascosti e l’ispirazione artistica ad essi soggiacente ben più presente di quanto vorrebbe farci credere una critica facilona e in questo caso come non mai inclemente nei confronti di un’opera cinematografica di tutto rispetto.

7.5

 

 

 

 

 

 

 

 

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