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Grissom Gang. Niente orchidee per Miss Blandish

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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La recensione su Grissom Gang. Niente orchidee per Miss Blandish

di spopola
8 stelle

Mefitica incursione dentro il cuore della grande crisi del ’29, è un’opera di insolito equilibrio formale che sotto lo smalto di una confezione irreprensibile, cela una vena di aspra critica che corrode le fondamenta dello stile di vita americano. Uno spaccato amaro e non banale insomma sui figli di una nazione che ha perso la sua verginità.

Accolto abbastanza freddamente alla sua uscita, Grissom Gang (il film col quale Robert Aldrich ha magistralmente approcciato il genere gangster-movie), pur se molto rivalutato nel tempo, non ha però ancora raggiunto anche come “popolarità” cinefila, il posto che gli spetta, e che dovrebbe collocarlo di diritto fra le opere più riuscite di tutta la sua filmografia (a mio avviso, davvero uno dei suoi “capolavori” più misconosciuti e incompresi).

Tratto dal romanzo di Hadley Chase Niente orchidee per Miss Blandish pubblicato nel 1939 e ispirato dalle imprese della famigerata banda dei Barker,è la seconda trasposizione cinematografica del libro che segue a qualche decennio di distanza, quella ben più scialba e anonima firmata nel 1948 da St. John Legh Cliwers.

Aldrich al contrario, con una rilettura molto personale che mi viene da definire di ascendenza faulkneriana, da questo tragico “fatto di cronaca nera” ci ha ricavato un inquietante spaccato che lo rende davvero un piccolo ma significativo epigono di Santuario per il quale Malraux parlò a suo tempo di “innesto della tragedia greca dentro al romanzo giallo”, definizione che calza a pennello anche per Grissom Gang, che con altrettanto veemente vigore, segue una strada analoga non solo perché le due storie hanno diversi punti di contatto, ma anche per come riesce a sua volta a raccontare lo scontro (drammatico e funesto) fra l’innocenza gaudente della gioventù borghese americana dell’epoca e l’ambiente disumano e selvaggio della malavita.

Mefitica incursione dentro il cuore della grande crisi del ’29 (dove la psicopatia del capobanda innamorato che con il suo clan tiene in ostaggio la giovane ereditiera rapita, è anche lo scoperto simbolo di una malattia sociale), Grissom Gang si conferma dunque un’opera dall’insolito equilibrio formale che sotto lo smalto di una confezione irreprensibile, cela una vena di aspra critica che corrode in profondità le fondamenta dello stile di vita americano. Il film avrebbe potuto contenere tutti gli elementi di sadica violenza che sono stati il patrimonio d’elezione del regista in quasi tutte le sue opere, ma questa volta però, pur non disattendendo i sordidi risvolti perfettamente espressi con quell’opprimente senso di laida depravazione che circola sotterraneo raggiungendo momenti di insopportabile tensione emotiva, il regista ha saggiamente preferito optare per una mediazione più sobria, che “azzarda” perfino uno scomodo parallelo che equipara la violenza degli emarginati e dei criminali a quella dei ricchi che rappresentano le classi egemoni, e questo conferisce alla pellicola una valenza politica tutt’altro che di secondaria importanza.Uno spaccato amaro e non banale sui figli degeneri dell’America dunque, dove la miseria, la prostrazione fisica e mentale, la contrapposizione classista, diventano palpabili derive capaci di trasformare un truculento intreccio in una vera e propria tragedia edipica – e qui si ritorna a Malraux - senza innocenti e senza lacrime. Un cinema di antieroi (come tutto quello realizzato dal regista) insomma, che si concentra ancora una volta sul tema chiave della repressione operata dalle istituzioni (famiglia e forze dell’ordine).

 

 

Questo ventitreesimo lungometraggio, è anche l’ultimo realizzato da Aldrich nella piena libertà ispirativa che si era guadagnato scegliendo di lavorare in totale autonomia nei sui Studi (che fu purtroppo costretto a vendere solo dopo cinque anni dal loro acquisto, per evitare il fallimento causato dai disastrosi esiti commerciali dei due titoli che immediatamente lo precedono: L’assassinio di Sister George e Non è più tempo di eroi) ed è di conseguenza anche quello che chiude definitivamente un periodo davvero di grande spregiudicatezza espressiva che non potrà  più mantenersi così piena e “immacolata” nelle fasi travagliate delle successive tappe della sua carriera.

Il quadro amaro e non banale dipinto dal regista, ci racconta la storia di una ricca ereditiera rapita dalla banda dei Grissom composta da una madre e quattro figli (di cui uno ritardato). Lo schema generale non si discosta molto da quello di altre vicende di analoga natura: cambia semmai la maniera con cui il regista conduce tutti i suoi personaggi a una resa finale drammatica e senza via di uscita alcuna,  che deraglia inesorabilmente verso l’emarginazione e la morte. Cambia conseguentemente pure la modalità con cui viene messo in scena non solo il meccanismo delle dipendenze malate (affettive e non) che si creano sempre fra vittime e carnefici, ma anche quello degli stupri, degli omicidi, delle colpe e delle punizioni ingiuste o fatali, tutte tematiche che qui vengono sviluppate attraverso scene vivide di colori, ombre, forme, movimenti e suoni che investono davvero i cinque sensi, diventando quasi tattili emozioni.

Se la nostra protagonista (la “bella”), obbligata a spogliarsi progressivamente dello status di ereditiera viziata e costretta ad “abbracciare” sentimentalmente (non solo metaforicamente) il reietto che si è preso cura di lei al di là di ogni convenienza sociale o personale opponendosi persino alla “famiglia” viene alla fine “salvata” (si fa per dire), e se la sorte del reietto (la “bestia”) è segnata (e non poteva essere altrimenti: l’uomo viene massacrato dalle forze dell’ordine non appena esce dal fienile e non si tratta certo di uno scontro a fuoco, ma bensì di un’autentica esecuzione) la conclusione è tutt’altro che positiva e accomodante: la ragazza è rinnegata pubblicamente dal padre, (il “rispettabile” John Blandish) e abbandonata al suo destino sostanzialmente perché ha privilegiato la sopravvivenza alla reputazione, ed è un ripudio (o per meglio dire una condanna borghese votata al perbenismo di facciata) che equivale in tutto e per tutto (e forse è anche peggiore) a una sentenza di morte. Il finale originario del film, mostrava in effetti  il suicidio della donna, rimanendo in questo più fedele al libro che si conclude così:

- E’ la prima volta che mi trovo ad affrontare da sola una situazione difficile. Ho sempre pensato a divertirmi e basta. Finché non è successo questo. Dovrei considerarlo come una prova, vero ma per me è una trappola: una trappola dalla quale so che non riuscirò ad uscire – Strinse i pugni. – Farei  meglio a lasciarmi visitare dal dottore. Lui mi dirà qualcosa. E forse, come dite voi, fra un paio di giorni  potrò guardare le cose con maggior calma. Vedete in che stato sono ridotta.

- Avvero il medico – mormorò Fenner. – Non siate così severa  con voi stessa. E’ normale che sentiate bisogno di aiuto  dopo quanto vi è successo. Vedrete che tutto passerà. Fatevi forza.

Sul volto di Miss Blandish si disegnò un tenue sorriso.

- Fate presto, per favore: ho bisogno di qualche medicina. Il dottore saprà cosa darmi. Non resisto più. Sono quattro mesi  che vivo imbottita i stupefacenti.

- Lo chiamo subito. – Fenner uscì nel corridoio, lasciando la porta aperta . – Ehi, tu – gridò a uno dei poliziotti. – Manda su il dottore, presto!

L’uscio sbatté alle sue spalle. Fenner sentì la chiave girare nella toppa.

Assalito da un presentimento, bussò ripetutamente, ma la ragazza non venne ad aprire. Diede una spallata alla porta.

I due agenti accorsero.

- Aiutatemi ad aprirla!

Nel momento in cui con i loro sforzi combinati riuscirono ad abbatterla, Fenner udì un grido soffocato: sembrava giungere da molto lontano.

Dalla strada, salirono delle voci concitate. Il traffico si era bloccato di colpo.

Immobile sulla soglia, Fenner guardava la stanza vuota.

Furono dunque le reazioni negative degli spettatori delle anteprime che consigliarono ad Aldrich di apporre questo cambiamento. Devo dire però che l’eliminazione della scena intacca ben poco il pessimismo dell’assunto (“Niente di più grave le poteva succedere, la sua vita a quel punto era rovinata, finita”) che rimane davvero elevatissimo (addirittura più cupo e disturbante) sia sul versante del “privato” che su quello sociologico. Il dito è insomma puntato contro una società in cui prevale ancora e sempre la discriminazione “classista” e dove l’azione repressiva delle istituzioni è più feroce e “sadica” del male che è chiamata a combattere.

Inappuntabile come al solito la “confezione” (passatemi il termine) a partire dall’eccellente prova  degli attori che pone in primo piano quella di Scott Wilson che ci regala un magnifico, sfaccettato ritratto del mentalmente “disturbato” Slim Grissom, e quella altrettanto significativa di Kim Darby, talentuosa interprete della sfortunata ereditiera (una interprete duttile e delicata che è stata davvero poco sfruttata dal un sistema “cinema” spesso troppo miope che le ha fornito solo tre occasioni rilevanti  concentrate nel triennio 1969-1971: il primo Il Grinta, accanto a John Wayne; il piccolo “cult” sessantottino Fragole e sangue diretto da Stuart Hagmann, e appunto questa pellicola di Aldrich, per poi disperderla in un anonimato privo di “rinascite” che forse le ha permesso di sopravvivere, ma senza più “brillare” sullo schermo quanto e come avrebbe invece potuto fare).

Accanto a loro, lo spigoloso detective Fenner di Robert Lansing, la bellicosa Ma’ Grissom di Irene Dailey, Tony Musante, Wesley Addy (presenza spesso ricorrente nei film di Aldrich), Connie Stevens, e Joey Faye.

Ottimo anche il versante cosiddetto “tecnico” che vanta al suo attivo la pastosa, smagliante fotografia di Joseph Biroc  e il dinamico montaggio di Michael Luciano, abituali collaboratori del regista, che anche qui lasciano segni indelebili di “riconoscibilità” come in tutte le altre sue opere alle quali hanno collaborato.

La sceneggiatura, puntuale e “tagliente” al punto giusto, è di Leon Griffiths, mentre il soundtrack  (qui molto importante perché “essenziale” per definire anche “sonoramente” un’epoca  per più di una ragione quasi “mitizzata” come è stata quella dei ruggenti anni ’20 e conseguenti), è frutto del  geniale talento di Gerald Fried, che giustamente intervalla le sue composizioni originali, con molti intramontabili brani ripresi direttamente dalle hits di quel periodo, fra le quali mi piace ricordare almeno Baby e Ain’t Misbehavin’e I Can’t Give You Anything But Love.

Per concludere, ancora due parole sulla efficace regia di un Aldrich in gran forma, che pone in primo piano il lato più “oscuro” e morboso della vicenda (le tensioni erotiche via via sempre più “attrattive” e destabilizzanti - soprattutto per lo spettatore - fra i due protagonisti), ma lascia anche (e giustamente) ampio spazio agli inseguimenti, alle sparatorie, all’azione insomma, e su questo versante, ci “regala” il pathos e la dinamicità avvolgente di alcune indimenticabili sequenze, inframmezzate però – altra caratteristica peculiare del suo cinema – da fortissime dosi di ironia e sarcasmo che solo lui sapeva innestare così bene dentro la drammaticità delle sue storie.

 

 

 

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