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Marie Antoinette

Regia di Sofia Coppola vedi scheda film

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La recensione su Marie Antoinette

di spopola
8 stelle

Il film è una rappresentazione suggestiva della nostra contemporaneità filtrata attraverso il contesto storico di riferimento (della cui attendibilità però la regista se ne infischia perché altre e molto più ambiziose sono le finalità della sua rivisitazione). Una sorprendente, acutissima, insolita opera di straordinaria rilevanza da non perdere.

Marie Antoinette è una rappresentazione suggestiva della nostra contemporaneità filtrata dal contesto storico di riferimento (della cui attendibilità pedissequa però la regista se ne infischia altamente perché altre e molto più ambiziose sono le finalità della sua rivisitazione). Ed è proprio grazie al disincantato sguardo di una rilettura “non conforme” che riesce a dirci molto di più sui disadattamenti e le inquietudini dei nostri tempi di quanto non siano in grado di fare molte pellicole che pretenderebbero di raccontare il presente ma sono purtroppo prive delle qualità interpretative fortemente allusive che invece illuminano la visione della Coppola. Una sorprendente, acutissima opera che disattende ogni schema precostituito dei biopic tradizionali che è anche un viaggio pop-rock dentro l’anima disorientata di una adolescente troppo presto privata delle sue radici e catapultata in un mondo alieno che le richiede una maturità che non possiede. Alla Coppola importa davvero poco dell’aderenza storicizzata più che dei fatti, dei comportamenti e delle interpretazioni, a lei interessa di più utilizzare il personaggio per proseguire il discorso iniziato con la sorprendete opera del suo folgorante debutto di qualche anno fa, e si può quindi dire senza tema di essere contraddetti, che la sua regina rappresenta il paradigma estremizzato delle tensioni già traumaticamente presenti nelle graziose, trepidanti e stupefatte ragazze della famiglia Lisbon che animarono le vicende del suo debutto sul grande schermo: Versailles, ovvero “il giardino delle vergini suicide” allora, e Marie Antoniette, più che una impopolare regina dal destino infausto, una donna schiacciata dagli eventi che, come ha dichiarato la stessa Coppola a conferma della sua personale visione delle cose, “non era né innocente né crudele, né stupida né intelligente, il cui destino l’ha portata a trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Per la regista (anche sceneggiatrice) è allora semplicemente una questione di adolescenza inquieta (una gioventù priva di affetti, isolata e sperduta come in una bomboniera ovattata dai colori pastello, dentro saloni così immensi da determinare un inevitabile senso di claustrofobico disorientamento e condizionata dalla “scansione ritmica” del cerimoniale di corte che è molto più di un semplice formalità esteriore, perché rappresenta in qualche modo la visione finale, la concezione stessa della società e della vita. E la Storia, quella con al S maiuscola, si piega alla necessità di privilegiare il racconto dello spaesamento di una bambina viziata e allegra ma troppo sola, circondata da intrighi, maldicenze e invidie di adulatori tracotanti, condannata per lungo tempo (quasi sette anni) a vivere accanto a un marito quasi coetaneo e analogamente immaturo che la sta ignorando anche sessualmente. Invischiata in questa ridicola e assurda ritualità che non può esimersi dall’osservare e rispettare (anche se con qualche piccolissima trasgressione come un inconsueto applauso a teatro che desta scompiglio), attonita e assorta nella contemplazione esterrefatta della freddezza glaciale che la circonda che esclude la passione ed esalta solo il “dovere” e la “responsabilità istituzionale” (le uniche parole d’amore, o che sfiorano i sentimenti, sono singolarmente pronunciate dalla Du Barri l’anticonformista fuori dagli schemi, amante di Re LuigiXV) per non soccombere davvero, non può che rifugiarsi nei lussuosi giochi che le sono concessi, fra acconciature impossibili, montagne di panna montata e coloratissime gelatine. Dimentichiamoci davvero di fronte a questa singolarissima prova di abilità che conferma la completa, raggiunta maturità anche stilistica della regista (soprattutto nella seconda parte più inafferrabile e coraggiosa) che la ragazzina per la quale siamo portati a fare il tifo, è la stessa detestabile sovrana che con i suoi sperperi e le sue intemperanze fece scoccare la scintilla della rivoluzione (qui evocata soltanto come un’eco lontana e visualizzata “di scorcio” in una delle scene più azzeccate e suggestive dell’intera pellicola, quando Maria Antoinette sul balcone,ormai consapevole del proprio destino, si genuflette davanti al popolo che la reclama a gran voce per fare giustizia, allargando le braccia e chinando la testa fino a sfiorare la balaustra, quasi ad assumere la posizione della ghigliottinata) e lasciamoci affascinare dalla rapinosa bellezza delle immagini. Trascuriamo il confronto con tutto il cinema storico che ha preceduto questa pellicola forse irripetibile (anche con il magnifico Kubrick di Barry Lindon che è tutt’altra cosa) e non azzardiamo paralleli nemmeno con le irriverenze di certe “riletture” Russelliane con le quali non è assolutamente imparentata, ma delle quali forse ha tenuto cont,) e facciamoci trascinare dalla qualità del linguaggio ultramoderno adottato che, nonostante gli sfondi storicizzati dei luoghi dove si svolsero i fatti, la sontuosità dei costumi, la magniloquenza degli ambienti, la ricostruzione attendibile della cornice insomma, è lì per dimostrare e farci comprendere la sua autonomia assoluta dalla “attendibilità” di ciò che è effettivamente accaduto, anche attraverso scelte coraggiose e all’apparenza spiazzanti, come quelle che riguardano le contaminazioni fra classico e new wave della splendida colonna sonora, capace di accompagnare e rendere “omogenee” intere sequenze visivamente ritmate e costruite come se fossero dei videoclip, per “ricordarci” ancora una volta e sottolinearlo con maggior forza, che quel settecento apparentemente lontano, questa disgregazione fra potere di stato e situazione reale della popolazione, questo disancoramento giovanile, non è un retaggio antico e superato, ma una poco rassicurante realtà che appartiene indisturbata e ripetitiva al nostro quotidiano girovagare nello sconforto della disillusione con la quale purtroppo sembra che la maggioranza sia invece restia a confrontarsi. L'adesione al personaggio da parte della Dunst è superlativa (l’impegno è stato pienamente onorato e la sua si conferma come una prova matura ed articolata, la migliore di una carriera in costante crescita), così come volgare ed azzeccata risulta la Du Barri “asincronica” (anche nei colori) della Argento. Analogamente positive le prestazioni di tutto il restante cast, dalla Faitfhul alla Davis, senza dimenticare il versante maschile qui forse solo un poco più sfumato nella resa. Al di sopra di ogni lode i costumi, le scarpe, le acconciature e le ricostruzioni (non solo scenografiche, ma anche culinarie).

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