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Il grande sonno

Regia di Howard Hawks vedi scheda film

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Raffaele92

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La recensione su Il grande sonno

di Raffaele92
7 stelle

Quando verso l’inizio del film Martha Vickers casca letteralmente – con nostro sommo stupore – tra le braccia di Humphrey Bogart, a noi spettatori viene lanciato un messaggio, un monito, forse la chiave di lettura stessa della pellicola: l’esclusione della razionalità, la totale messa da parte della logica.

Grazie a quella sequenza ci troviamo, se così possiamo dire, catapultati in un sogno. Un sogno nel quale fa molto caldo, come nella serra dove si consuma l’incipit. Da lì in poi, il film diventerà mano a mano più incomprensibile, fino a svanire nella forma. Perché “Il grande sonno” è questo: elegia della forma, la pura bellezza del gesto. A titolo esplicativo basti vedere la sequenza dove Bogart, mentre è al telefono in un café, si fa accendere la sigaretta dalla cameriera. È un accadimento fugace, del tutto fuori dal contesto, assolutamente inutile, eppure il cinema sta tutto lì, la spiegazione de “Il grande sonno” risiede in quella manciata di secondi dove si compie il gesto.

L’opera in analisi viene considerata come paradigma del noir cinematografico, perché racchiude e sintetizza le origini e gli archetipi letterari dai quali il suddetto genere proviene, salvo poi scrollarseli di dosso con mirabile eleganza.

Rinnegando il concetto stesso di plot, contorce, srotola, sovverte e interseca la struttura narrativa a tal punto da arrivare a farsi palesemente beffe dello spettatore, che resta disorientato eppure estasiato, scioccato eppure ammaliato, inorridito eppure conquistato.

Forse è solo un gioco, oppure (come accennato all’inizio) si tratta solo di un sogno. Forse invece non c’è spiegazione alcuna, perché è la vita stessa a rifuggire ogni possibilità di comprensione, è la caducità degli eventi a sfuggire al nostro controllo, è l’esistenza stessa a rivelarsi incomprensibile nelle sue molteplici sfaccettature.

“Il grande sonno” sancisce la totale inafferrabilità di ciò che ci circonda, e lo fa esasperando la perfezione di una messinscena dallo stile inarrivabile.

L’ostentato charme che scaturisce dall’esibizione dell’alchimia tra i protagonisti sembra volersi proporre come rimpiazzo e compensazione dell’imperfezione di quel mondo del quale essi fanno parte. Ecco allora che acquistano senso i duetti (all’apparenza pleonastici ed estranei al complesso) tra Bogart e le tante ragazze di turno, grazie ai quali è anche facile notare come Hawks provenga dalla commedia.

Nonostante quanto detto finora, ad ogni visione del film a perdurare per me è un rapporto di amore-odio: la quasi totale casualità con la quale le sequenze si susseguono toglie allo spettatore moltissima di quella partecipazione che, per esempio, rende (sempre secondo un parere del tutto personale) “Il grande caldo” (1953), “La fiamma del peccato” (1944) o “Solo chi cade può risorgere” (1947) opere ben superiori a quella in analisi.

Orde di appassionati cinefili cercheranno di persuadermi del fatto che il plot non debba essere considerato come un parametro di giudizio per questo film. E probabilmente avranno ragione.

E allora perché questo intreccio che si permette di fare a meno della storia continua a rivelarsi ai miei occhi come un limite?

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