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Inside Man

Regia di Spike Lee vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Inside Man

di lussemburgo
8 stelle

L'apparenza inganna. Tutto il film è costruito sulle false apparenze, sulla divergenza tra il visibile e il vero, in un costante gioco di ruoli e di menzogne a prima vista veritiere, tra il mostrato ed il narrato, il resoconto dettagliato di un colpo in banca e la realtà americana che traspare dalla finzione, le contraddizioni del tempo e la linearità del racconto.
E' un film sottile, ludico nel tono e nello stile, dove Lee recupera gli stilemi, visivi e registici (personaggi fermi su carrelli, carrellate con controzoomate, un sottotesto musicale costantemente spalmato lungo il film) che caratterizzano il suo cinema e li condisce di ironia, sottolinea l'artificiosità di una regia imponente, marcata, minuziosa nel mimare la realtà con dovizia di dettagli secondari resi significativi, insinua dubbi sui tralicci portanti della visione, inserisce un'acuta critica del sistema mentre finge di piegarsi alle regole del mercato e dello show business di un film su commissione. Tutto è finzione in Inside man, esistenziale, sociale, narrativa, cinematografica, cronologica (il presente dell'azione è in realtà un prolungato flash-back). E dietro il paravento delle apparenze esponenzialmente moltiplicate, si rivela il turbamento di un'America (e una città) intimamente confusa, pragmatica ed efficiente ma facilmente incline a lasciarsi guidare da ciò che vede, senza ponderare conseguenze o turbarsi delle proprie contraddizioni. Così la messa in sicurezza delle strade attorno alla banca è dettagliata in ogni aspetto, si articola nei particolari di una prassi poliziesca che frana nell'inefficienza. Si espletano procedure politicamente corrette (le donne devono essere perquisite da agenti femmina) ma inavvertitamente ogni straniero è un arabo, anche se è Sihk, e rischia il linciaggio, l'inglese britannico è un accento strano, mentre i veri rapinatori si insinuano tra gli ostaggi e si dileguano, oppure si nascondono nel cuore stesso del sistema.
New York è un melting pot lasciato troppo a lungo sul fuoco, la città progressista che l'attentato alle torri gemelle ha restituito allo stato brado e ad un caos in fermento dove le comunità nazionali, razziali, sociali e politiche hanno compartimenti stagni tra cui non c'è comunicazione, se non casuale e imposta dalle circostanze. I corpi e le lingue usano codici variabili, comprensibili solo entro una ristretta cerchia. I ragazzi si assuefano alla violenza realistica dei videogiochi, più istigazione che catarsi, all'insegna del motto del rapper 50 Cent (Get rich or die trying) assunto a regola di vita assoluta e senza sfumature, tanto da rimanere indifferenti anche di fronte ad una rapina a mano armata.
Il plot stesso è un macroscopico e sardonico McGuffin che traveste di allusioni cinematografiche (Un pomeriggio di un giorno da cani, esplicitamente citato dai personaggi) una sostanza differente (Munich, che viene alluso), rompe la continuità temporale con salti avanti e indietro, propone un finale da blockbuster che la narrazione poi nega se non come variante ipotetica. La regia di Lee sfrutta ogni sotterfugio possibile, senza gratuita furbizia, solo con l'arguzia di chi ha consapevolmente strutturato uno spettacolo polisemico, ricco e divertente, concluso ma non consolatorio, che nasconde dietro alla correttezza formale dolorose insicurezze, allinea efficaci schizzi di personaggi senza pesantezze introspettive e con la rapidità ritrattistica della serialità televisiva.
La malinconia de La 25° ora si traveste per trascinare lo spettatore in un vorticoso giro di giostra, ma àncora solidamente il film al tempo presente e alla sua disarmonia costante. La regia e la narrazione rendono gli spettatori e i personaggi indifferentemente ostaggi e comparse, attori di ruoli variabili a seconda del punto di vista, ma tutti testimoni della fine di un certo sogno americano, delle macerie di un progetto sociale di fronte al cui crollo è infine inutile porsi domande morali, mentre è meglio sorridere con consapevole tristezza.

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