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L'ultimo miliardario

Regia di René Clair vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo miliardario

di spopola
7 stelle

Per sanare le dissestate finanze del suo regno, la regina di Casinario (paese immaginario che potrebbe essere assimilabile a una specie di fantasiosa versione balcanica del granducato di Montecarlo, ma che ha obiettivi e mire di riconoscibilità indubbiamente molto più ampie strettamente legate al particolare clima politico degli anni in cui il film fu concepito), nomina primo ministro (e poi alla fine se lo sposa anche), un presunto miliardario che definire semplicemente “eccentrico” significa davvero usare un eufemismo, tanto è pretenziosamente “fuori centro”. L’uomo, accolto come un salvatore, instaura bruscamente la dittatura in quel reame ormai sconvolto dalla crisi economia che lo ha investito.

Quando per un incidente casuale (la caduta del baldacchino del letto sulla sua testa che lo metterà per poco tempo fuori uso) perde del tutto il senno e comincia a dare definitivamente i numeri, sia i ministri che i sudditi non se ne accorgono (o per meglio dire non ci fanno caso) e continuano così   ad assecondare (anche per convenienza, non avendo altre alternative) le sue stravaganze senza battere ciglio.

La regina intanto, volendo disfarsi dell’intruso, prepara un attentato, ma il principe ereditario che è un idiota, nel portarlo a compimento sbaglia il colpo e fa di nuovo cadere il baldacchino sulla testa del dittatore che rinsavisce. Il finale è ovviamente a sorpresa (ma non troppo) ed è doveroso non anticiparlo per non fare un inutile (e dannoso) spoiler.

 

Questa in sintesi la storia che Clair racconta con il suo Le dernier milliardaire da lui girato in Francia nel 1934, opera indiscutibilmente minore (ma assolutamente da non trascurare) della sua filmografia, nel senso che non ha certamente l’impatto dirompentemente innovativo di Entr’act girato in un’epoca fortemente segnata dalla sperimentazione e dalla provocazione, o il tocco delicatamente irridente di Un chapeau de paille d’Italie (Un cappello di paglia di Firenze), la poesia di Sous le toits de Paris (Sotto i tetti di Parigi),  la contenuta sfrontatezza di A nous la liberté (A me la libertà) e de Le million (Il milione), o la tenera leziosità di Quatorze Juillet (Per le vie di Parigi), tanto per citare - fra i suoi precedenti titoli - quelli più amati e ricordati (e probabilmente anche quelli fra i più riusciti, nonostante che il tempo sia stato poco generoso, e abbia leggermente appannato la loro importanza, come non è accaduto invece per i titoli di altri grandi Maestri di quel periodo).

Questa volta si avverte infatti una specie di stanchezza (o di sfiduciata “rassegnazione”, se vogliamo) in quel suo non saper più perfettamente coordinare le sue boutade satiriche con la cupa realtà di quegli anni, come se percepisse di essere ormai fuori posto sia come persona che come artista nel contesto generale di un’Europa che si stava lentamente degradando (e non è stato dunque certamente un caso che Clair sia stato uno dei primi talenti del vecchio continente ad emigrare all’estero, quando le minacciose nubi del nazismo iniziavano già ad oscurare il cielo e l’orizzonte e anche in Francia le cose cominciavano a non andare più molto bene.

La sua “fatica” cinematografica, non riscosse infatti nemmeno in Patria adeguati consensi (certamente minori di quanto ne meritasse) per una serie di misunderstanding che la penalizzarono notevolmente: da una parte fu infatti osteggiata per una sua ipotetica (e per la verità molto forzata) velenosa carica di “antifascismo” (cosa che per altro le costò la libera circolazione sia in Germania che in Italia dove fu tassativamente proibita), e dall’altra, da chi invece la considerava un’opera poco “cattivamente incisiva” e troppo accomodante (Grandjean ne scriveva così su “Commune” n. 16 – Parigi, dicembre 1934: Forse Le dernier milliardaire potrebbe essere anche un buon film se non avesse un non so che di ristretto e d’irreale che lo svirilizza (…). Si fa fatica a capire se Clair è stato frenato dai produttori o ha temuto invece di andare troppo lontano, perché questa volta sembra voler frenare il proprio impeto proprio sul fronte dell’impegno (…). Se Clair è cosciente (come immagino che sia) del fatto che il suo talento non può aspettarsi più nulla di buono dal regime, se il risultato deve essere quello del compromesso, che si decida allora a fare le valigie e si orienti verso altre realtà dove per fortuna il cinema è in pieno sviluppo e gli artisti e gli scrittori possono esprimersi nel pieno fiorire della loro individualità, poiché altrimenti rischia seriamente di mortificare il suo talento).

Nessuno dei due posizionamenti di pensiero però è perfettamente aderente a ciò che il film propone (e intende essere) poiché a mio avviso (e l’averlo rivisitato a tanti anni di distanza me lo conferma) è in effetti e più semplicemente, un satira astratta (e solo in parte graffiante) da lui utilizzata (con molta meno speranza che in passato e altrettanto difettosa concentrazione) per sviluppare ancora una volta quelle che indubbiamente erano (e restano) le sue tematiche più care e congeniali (la ripetitività meccanicamente funzionale delle scoppiettanti trovate, l’insistenza quasi ossessiva sugli oggetti, la composizione figurativa di personaggi-marionette che si spostano sulla scena come se fossero mossi dalla mano esperta – ma questa volta meno ferma del solito - di un burattinaio che sa come tirare i fili e ottenere così da loro il massimo risultato anche espressivo).

Tutto sommato insomma, una commedia dissacrante dove il supposto antifascismo (che si può anche scorgere in filigrana con molta fantasia) se esiste, funziona semplicemente da background per consentire a Clair (anche sceneggiatore) di costruirci sopra e intorno il suo gioco narrativo preferito (e in questo senso si può convenire con il Mereghetti che il tema della dittatura si presta perfettamente all’esplorazione del meccanico, del ripetitivo, dell’automatico, così come la crisi economica che domina la prima parte del film, permette a Clair di scatenarsi come solo lui sa fare sul terreno degli oggetti, altra precipua caratteristica del suo cinema “fantastico”) dentro al quale per esempio, e come estremo paradosso, se per il pagamento di un aperitivo si utilizza un pollo, il resto non potrà che essere formato non da monete, ma da pulcini e uova.

Un gioco sottile e quasi surreale insomma, che ebbe però un impatto anche sul pubblico meno eclatante del previsto, forse per la mancanza di riconoscibilità immediata della mano creativa del regista e dei suoi compagni di lavoro: fotografia di Rudolph Maté (futuro regista del geniale D.O.A. – Due ore ancora) e Louis Née , musica di Maurice Jordan, scenografia di Lucien Aguettand, nessuno dei quali era stato fino a quel momento un suo abituale collaboratore (e dove anche una buona fetta degli interpreti veniva da lui utilizzato per la prima volta), tutti elementi che presi nell’insieme, finiscono per dare all’opera un aspetto anche visivo differente dal solito, il che fece certamente un certo effetto frastornante, poiché l’opera si distanzia dall’abitudinaria immagine di un cinema che in Clair era sempre stato riconducibile a se stesso anche semplicemente guardando un singolo fotogramma, cosa che ha sicuramente influito parecchio nel creare una sorta di disagio percettivo che ha notevolmente disorientato lo spettatore, perché al di là di queste (presunte) discrepanze formali, Le dernier milliardaire è comunque e per davvero un film pieno di buone intenzioni in cui il regista ha cercato di travasare una sintesi di tutto ciò che aveva già esposto nelle sue opere precedenti.

Tornando alla critica dell’epoca, Osvaldo Campassi[1] definì il risultato un miscuglio tutt’altro cheriuscito (il termine esatto che ha utilizzato è stato “intruglio”). Senza per questo voler mancare di rispetto all’illustre umanista, mi sembra di poter considerare il suo giudizio alla luce dell’oggi, troppo impietoso e soprattutto eccessivamente categorico, tale insomma da non poter essere pienamente condiviso. A me verrebbe infatti da definirla più semplicemente un’opera di transizione che proprio per questa sua particolarità molto evidente, non può assolutamente (e giustamente) essere inserita fra i più importanti risultati del regista, ma non mi sentirei di andare oltre, trovando piena conferma del momento particolare che stava attraversandi, nel fatto che sarà proprio Le dernier millionaire l’ultimo suo lavoro francese della prima fase, immediatamente antecedente alla parentesi inglese commissionata da Korda (The Ghost Goes West, Il fantasma galante) e al suo successivo più prolungato soggiorno in terra americana per le contingenti ragioni politiche in cui versava la Francia che, come ho anticipato sopra, resero indispensabile il suo precoce esilio prima al di là della Manica e poi oltre l’Oceano.

L’ipotesi da me formulata (la transizione appunto, o anche - se vogliamo - il segnale dell’irreversibilmente inizio del suo declino artistico) troverà infatti un parziale, convincente riscatto solo al suo ritorno in Francia con Le silence est d’or, Il silenzio è d’oro, appassionata dichiarazione d’amore per il cinema muto delle origini e commossa ricostruzione dell’indimenticabile stagione della belle epoque, oltre che uno dei vertici assoluti del suo cinema..

 

Ricco di trovate, ma un po’carente nell’organizzazione, anticipa comunque di qualche anno gran parte dei concetti che verranno poi più compiutamente esposti da Chaplin nel magnifico Il grande dittatore, a conferma del fatto che al di là della gradevolezza e della qualità dei risultati, il regista francese è stato anche un intelligente precursore capace di fornire spunti interessanti per il grande cinema che è venuto dopo: sempre riferendoci a Chaplin, si può citare pure A nous la liberté girato nel 1931 (e che quindi precede di cinque anni Tempi moderni che è del 1936) che qualcuno sostiene che sia stata la proprio la diretta fonte ispirativa che ha guidato la mano a Chaplin, col quale indubbiamente, sia pure in differente forma e con un piglio più sorridente e irrisorio e meno incisivamente rilevante come critica sociale, condivide alcune problematiche legate al mondo del lavoro e alla alienazione da “catena di montaggio”.

 

Tornando al film in questione, l’impronta di Clair si riconosce indiscutibilmente nell’impostazione della trovata iniziale e nei soliti, gustosissimi intermezzi comici e buffoneschi, quasi tutti ben orchestrati, anche se poi nella sua ricercata linearità di intenti non tutti pienamente conseguiti, sembra a volte smarrirsi (rasentando ora il grottesco, ora il melodrammatico) per quel suo non riuscire ad individuare questa volta una univoca strada da percorrere, il che lo porterà a disperdere la compattezza delle azioni realizzate a causa di una partecipazione emotiva solo a tratti evidente ma che in alcuni momenti sembra volersi trasformare in gelido distacco.

Le molte invenzioni convincenti disseminate dentro la pellicola (che comunque ci sono e sono tante) indicherebbero infatti una necessità di sviluppo rimasto spesso in embrione, quasi che Clair fosse principalmente preoccupato di rendere accessibili certi concetti di base da non accorgersi del rischio di farli diventare così troppo didascalici: un bisogno di chiarezza da raggiungere ad ogni costo, che come ben sappiamo è in genere molto dannoso per l’artista che si priva così del mordente che solo i concetti appena accennati o suggeriti (che chiedono poi la compartecipazione attiva dello spettatore) riescono a stimolare.

Questo è dunque il limite più evidente della pellicola, poiché per il resto Clair c’è tutto, a partire dalla sua proverbiale leggerezza quasi aerea dovuta al suo inimitabile tocco (che a tratti però diventa sorprendentemente più pesante del consueto).

Il film è riuscito meglio nella prima parte, quella che descrive la situazione del paese immaginario in cui a causa della crisi, la moneta è definitivamente scomparsa dalla circolazione e gli abitanti sono ridotti al baratto per sopravvivere, e dove, in conseguenza di tale contingenza, assistiamo a gustose scenette in materia di scambi in natura del tipo di quello che ho già anticipato prima e che passano dall’ironia paradossale e acidula (che è l’arma più precipua e graffiante del suo sguardo e della sua mano) alla polemica; con scivolate che vanno dal sentimentale allo scherzo, il tutto non sempre giustamente dosato e amalgamato.

Se Clair rimane dunque anche qui un ottimo animatore, se l’unghiata del grande inventore ogni tanto arriva improvvisa a deliziare gli occhi e la mente, il film manca purtroppo di una più generale compattezza e si piega a qualche “piaciona” faciloneria di troppo. Mi spiego meglio: una satira su un dittatore con il suo parlamento prono e asservito carponi alle sue assurde richieste , perde gran parte del suo vigore se tale dittatore è pazzo: si svilisce e diventa quasi una pretestuosa forzatura utilizzata per rendere più “saporita” la comicità che intende generare, e finisce di conseguenza per soverchiare e rendere meno evidente l’odioso della situazione che descrive e che intenderebbe stigmatizzare (ed è proprio questo che purtroppo accade nel nostro caso).        

 

 

[1] Osvaldo Campassi, scomparso nel 1997 a 83 anni (era nato ad Alessandria nel 1914), è stato per oltre quarant'anni dirigente industriale a Torino e a San Damiano d'Asti e ha potuto coltivare in parallelo anche altre passioni come quella per il cinema (risale al 1948/49 la pubblicazione in due tomi, presso l'editore milanese "Il Poligono", del volume Dieci anni di Cinema francese 1929-1939) e per il teatro. Cospicuo anche il suo contributo letterario (soprattutto come traduttore).

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