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Hans

Regia di Louis Nero vedi scheda film

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La recensione su Hans

di OGM
5 stelle

Follia. Discariche. Scarafaggi. In uno scenario surrealista riecheggia il dramma di Gregor Samsa. Solo che qui si chiama Hans Schabe. E la sua metamorfosi è, in realtà, una fissità raggelante, un incubo che si trascina senza davvero progredire, in mezzo ad ombre notturne e sacchetti neri della spazzatura. Louis Nero, questa volta, ci prova con la psicanalisi di Freud e di Jung, che prestano la loro voce a proclami ecologisti e disperate solitudini metropolitane. Dall’oscurità emerge, timidamente, un minimalismo postmoderno, dal suono flebile e rallentato,  che sembra il rimbombo di un degrado profondo, di un’apocalisse incombente che ha cominciato a consumare i pensieri. E, di riflesso, anche le parole e le azioni stentano a farsi avanti, lasciandosi dietro una scia di vuoto che annebbia la vista. La noia si confonde con l’attesa.  Il film pretende di raccontare i singoli istanti, ma dentro ognuno di essi si perde, in un’ipnotica divagazione sulla vertigine procurata dalla sensibilità emotiva, dentro un mondo che sembra ormai immunizzato contro ogni tipo di amore e di odio. Violenza, razzismo, sfruttamento sono elementi funzionali ad un sistema socio-economico che costruisce la ricchezza sulla povertà, e la sicurezza sull’orrore. Hans impazzisce per lo sdegno di far parte di questa umanità, e per la paura di entrarne a far parte a tutti gli effetti, condividendone l’assurdo cinismo. La sua diversità è vita che rivendica il proprio diritto a difendersi dalla morte fisica, per avvelenamento ambientale, e da quella morale, per assuefazione alla dilagante indifferenza. Hans vomita se vede un cadavere spuntare da una montagna di immondizia. È il volto sano del senso di ribrezzo. Hans diventa un bruto se scopre una coppia che si scambia effusioni sulla pubblica via. È la degenerazione patologica del pudore, del rifiuto della morbosità, che finisce per sfondare il confine della perversione. Un animo tenero e debole è catturato in una spirale nella quale, a furia di toccare gli estremi, tutto finisce per risultare sbagliato. Questo film converte la negazione in uno sperimentalismo che ama avvolgersi su se stesso, limitandosi a percorrere il filo della matassa che non è in condizione di districare. La sua trama è un meandro sottile e buio, che si addentra nelle viscere del mistero senza poterne mai acquisire una visione d’insieme. L’indagine coincide con un cammino allucinato lungo un cunicolo che va dritto verso la catastrofe dell’io, la sua disgregazione, la sua fusione col cosmo avvenuta per frammentazione organica. L’individualità va in pezzi, mangiata dagli insetti e spezzettata dalle contraddizioni. Questo film impiega un tempo smisurato per trasmetterci questa ferale notizia sul nostro destino. Dobbiamo uccidere, subito, in un colpo solo, per non essere a nostra volta uccisi, nei mesi, negli anni, poco alla volta. A questo terribile principio si possono ridurre le nostre ossessioni, quelle sentimentali, esattamente come quelle escatologiche. Non è pensabile che l’uno si mantenga integro e lucido in mezzo ai tanti, in mezzo al tutto che rincorre, inconsciamente, la propria fine. L’idea è chiara, ma la sua formulazione è troppo sfumata,  vistosamente faticosa. Rimane così, sospeso nel cuore tempestoso di un’indole cupamente visionaria,  il messaggio di tenebra che vorrebbe celebrare il tormento interiore, il terrore del futuro: un canto infernale che, purtroppo, non va oltre la superficiale suggestione di un criptico presagio di sventura. 

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