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Black Dahlia

Regia di Brian De Palma vedi scheda film

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La recensione su Black Dahlia

di Utente rimosso (j.d.)
8 stelle

Nel 1947, Los Angeles, la “Mecca del Cinema” venne sconvolta dal barbaro omicidio della giovane  e aspirante attrice Elizabeth Short, soprannominata “Dalia nera”. Nella realtà, il caso venne indagato con riservatezza, limitando fughe di notizie alla stampa, ed è rimasto insoluto, ma l’orrore che esso ha suscitato fu destinato a lasciare un segno nella storia di Hollywood. Nella fantasia, sono gli agenti Dwight “Bucky” Bleicheirt e Lee Blanchard, a ritrovarsi nei paraggi del luogo dove il cadavere viene ritrovato, tanto da instillare il sospetto che il malvivente a cui danno la caccia sia coinvolto nell’atroce delitto. Ma l’affresco dell’epopea losangelina di James Ellroy è talmente pieno di indizi, di nomi e di trame oscure che ad un certo punto di scoprire chi è l’assassino importa meno che non venire a conoscere tutti i fatti che conducono alla ricostruzione della dinamica dell’omicidio.
All’inizio la messinscena sembra lasciata a se stessa, come in balia dei numerosi eventi e degli episodi appena accennati, come se non poggiasse su quella struttura narrativa solida e perfettamente orchestrata che invece caratterizzava L.A. CONFIDENTIAL e già questo dimostra che gli intenti del regista sono innanzitutto quelli di dare al suo film una sua autonomia rispetto allo splendido film di Curtis Hanson, con cui difficilmente il pubblico non potrà confrontarlo. Ciò che il film riesce a trasmettere è l’impatto che il misterioso delitto suscita nel caos della metropoli californiana, riproducendo il senso di mistero e di sgomento che lo circonda e narrando le conseguenze che avrà sui destini del quartetto di protagonisti. Il  groviglio investigativo si viene ad intrecciare con le vicissitudini personali e professionali dei due detective, lo scioglimento dell’enigma appare sempre più arduo e la scoperta del colpevole non sarà priva di sorprese. Lo sceneggiatore e l’autore hanno sintetizzato al meglio il romanzo, lavorando di fino sull’inquietudine, l’ambivalenza e l’incertezza che pervadono le intricate e misteriose vicende tipiche del cinema noir e poliziesco, coi suoi antieroi e le sue donne manipolatrici, tutti animati da interessi economici o sociali, quasi sempre soggiogati dal pessimismo e dal fato, vittime e carnefici immersi in atmosfere spesso cupe e opprimenti.
L’effetto deja vu restituisce il fascino di quei vecchi film, in cui contavano di più le atmosfere e i personaggi prima ancora che la plausibilità dell’intreccio, ma chi non ama il genere e le sue icone sarà più facilmente attirato verso la noia.
Tutti i caratteri e le movenze dei quattro protagonisti appartengono all’armamentario iconografico e narrativo del genere noir, e si muovono e parlano come se, a livello diegetico, i loro stessi personaggi stiano interpretando delle “parti”, le stesse che hanno(abbiamo) visto in decine di film.  In diverse occasioni, e per svariati motivi, essi si trovano spesso a dover mentire o ingannare, talvolta anche a se stessi, proprio come se seguissero un copione. Ed è sotto l’insegna di Hollywood che rinviene uno dei fili rossi che collegano questo film al suo “gemello” MULHOLLAND DRIVE, assai molto di più e prima ancora di FEMME FATALE. Se il film del 2002 richiamava il capolavoro di Lynch nella doppia vita della protagonista e rielaborava i codici, gli stilemi e gli intrichi narrativi del noir anni ’40-‘50, senza mai rinunciare ai virtuosismi tecnici firmati De Palma, BLACK DAHLIA lo richiama in modo più sottile e raffinato, impercettibile per chi non conosce il magistero filmico lynchiano: nella sequenza, tutta in soggettiva, della cena nella villa della grottesca famiglia Linscott e nei provini della Dalia Nera, l’effetto bizzarro provocato dai cenni incomprensibili di questi pittoreschi personaggi dona ad essi un'indecifrabile carica emotiva, più profonda, più straniante, come se, dietro le maschere degli archetipi che rappresentano, una sorta di “famiglia Addams” e un'eccentrica e malinconica "giovane aspirante attrice provinciale", siano essi stessi rimasti ammaliati dal “cuore selvaggio” di un mondo che si presenta dorato sullo schermo ma che si rivela fittizio, perché costruito su “legname marcio” di falsità, avidità, odio e disillusione. Se però, i membri della famiglia Linscott ne sono stati corrotti, succubi e resi complici, Betty ne è rimasta ferita e delusa, arrivando ad imboccare la strada sbagliata, quel "viale del tramonto" che la condurrà a diventare vittima delle manie e delle perversioni di chi lo abita. Nelle sue brevi apparizioni, una in flashback e tre in pellicola B/N, Mia Kirshner/Betty vale da sola tutto il film. La scena del ritrovamento è geniale: una carrellata aerea verso l’alto sorvola i tetti di una via di periferia deserta, che sembra un dipinto di Edward Hopper, l’inquadratura rimane per un attimo a campo lungo, giusto il tempo di mostrare una donna che corre via terrorizzata dopo aver fatto la macabra scoperta nel prato sul retro, poi la carrellata prosegue tornando sull’azione dei due poliziotti e, in seguito, da una finestra che dà la vista su quel prato, si vedranno accorrere frotte di giornalisti e poliziotti.
Inutile dire che il delitto, con la coda di ricatti e minacce che l’avvolge, sconvolgerà la routine investigativa dei due agenti Bleicheirt e Blanchard, due figure contrapposte, ma speculari fin dall’assonanza fonetica dei loro nomi, al solito impegnati a dare la caccia a spacciatori, protettori e gangster della peggior risma nei bassifondi della “citta degli angeli”.
 I voli della macchina da presa con cui l’autore ha sempre coinvolto ed appassionato il suo pubblico, qui non rappresentano più dei meri vezzi registici ma vere e proprie soluzioni tecniche, ben piazzate, funzionali allo svolgimento della complessa e affollata intelaiatura costituita dall’intelligente, e certo non facile, adattamento che Josh Friedman ha tratto dallo sfrondamento delle pagine del romanzo ellroyano. De Palma abbandona finalmente le evidenti citazioni hitchcockiane, per utilizzare un approccio più suggerito e meno esplicito ai temi del doppio, del travestimento, del voyeurismo e della necrofilia, adattandoli all’interno della trama poliziesca, lasciando allo spettatore il piacere di riscoprire queste sue ossessioni, dissimulate all'interno del film.
Panoramiche, carrellate, piano-sequenze e scene madri al ralenti vengono qui usate con giudizio, cioè nei momenti giusti, e tutta la progressione del racconto, accompagnata da tutto il suo corollario di false piste, rivelazioni, macchinazioni, diramazioni e sottotrame, viene centellinata in sequenze scevre da una sola inquadratura di troppo o fuori posto, collegate da dissolvenze e “tendine” tipiche del “quel” cinema, rese ancor più preziose dalla sontuosa e particolareggiata ricostruzione d’epoca e dalla patinata fotografia. La colonna sonora di Mark Isham è una delle più suggestive che il compositore abbia mai realizzato.
Josh Hartnett ha fisico ed espressività giusti per interpretare il suo Dwight, Hilary Swank riesce subito a far dimenticare MILLION DOLLAR BABY nelle vesti della torbida e viziosa "dark lady" Madeleine Linscott. Aaron Eckhart dona spessore all’isteria di Lee e Scarlet Johansson regala la consueta dose di sensualità e tormento alla sua “femme fatale” Kay Lake.

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