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Black Dahlia

Regia di Brian De Palma vedi scheda film

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La recensione su Black Dahlia

di ed wood
5 stelle

Staffetta vertiginosa di generi codificati che si danno il cambio nel corso del film: pugilistico, commedia, poliziesco, noir, erotico, thriller, horror, melo. Potrebbe essere un gustoso e divertente pastiche, se solo non difettasse di almeno un paio di ingredienti fondamentali: ritmo e humour. Tutte le sequenze sono parodie senza ironia dei classici del genere, di cui vengono ora ricalcate ora sovvertite forme, modi e tempi. Ad ogni sequenza, pare iniziare un nuovo film: le molteplici false piste che ostacolano la detection dello sbirro si riflettono in quelle che De Palma mette sul piatto per pervertire il racconto e disorientare lo spettatore. Sarebbe l’apoteosi del divertissement post-moderno, il trionfo di un formalismo così puro da vivere di luce propria e diventare paradossalmente “emozionale”, se non fosse che “Black Dahlia”, per come è strutturato e condotto, non si sottrae alla tipica andatura del film “morale” di stampo classico. Ci sono personaggi in cui identificarsi, vicende appassionanti, amori e tradimenti, sangue e lacrime; c’è il dramma in tre atti, con l’antefatto, l’omicidio, lo scioglimento della tensione. Il problema è che il consueto ricorso all’artificiosità depalmiana per articolare e complicare la vicenda non sortisce l’effetto di mantenere attivo il godimento dello spettatore, a forza di spericolate contaminazioni e di fascinazione per il mero piacere della visione: piuttosto, il risultato è un film stanco, privo di smalto, che arranca sotto il peso di una trama così cervellotica da far pensare al “Grande Sonno” hawksiano, di una voce off eccessiva, di un’azione macchinosa e prolissa. La prospettiva post-moderna a cui aderisce pienamente il film non può in alcun modo giustificare pecche lampanti dello script, come ad esempio l’improvvisa follia di Blanchard o lo sviluppo reticente del menage-a-trois. “Black Dahlia” fallisce sia come prodotto “di generi” sia come riflessione “sui generi”, confermando De Palma come un sincero ispiratore di tanti discorsi meta-cinematografici messi in atto da svariati registi dell’ultimo trentennio, ma senza mai raggiungere egli stesso lo status di Maestro: sempre conteso fra l’amore per la purezza classica, la libertà del linguaggio moderno (anche qui abbondano soggettive, giochi di specchi, grandangoli, piano-sequenza in dolly ed altri virtuosismi) e il distacco della dottrina post-moderna, De Palma non è mai riuscito a trovare una strada convincente. Hitchcock è lontano, e non solo lui. Peccato perché il terreno su cui è stato edificato questo “Black Dahlia” era pure fertile: ottima l’idea di ibridare il pudore d’epoca (gli anni 40 del codice Hays, e difatti molte scene di sesso finiscono in dissolvenza coi personaggi ancora vestiti) con la sfacciataggine dei nostri giorni (la messa in scena di tutto ciò che all’epoca dovette essere censurato: dai locali lesbo ai filmini porno, fino ai cadaveri squartati), il linguaggio “nobile” della letteratura hard-boiled classica con la volgarità contemporanea; così come stimolante era il ricorso all’immagine pre-registrata come mezzo per far rivivere il passato e indagare il presente, cavallo di battaglia depalmiano fin dai tempi di “Blow Out”. Il problema è che, al netto di episodiche trovate geniali e di un impianto teorico promettente, ci si ritrova comunque a dover seguire un film farraginoso e deludente sul piano della suspence. Riguardo al cast, una strepitosa Swank distrugge la Johansson in sex appeal, mentre sul comparto maschile è bello tacere. 

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