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Tras el cristal

Regia di Agustí Villaronga vedi scheda film

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La recensione su Tras el cristal

di spopola
8 stelle

Tras el cristal è un film scioccante che colpisce gli occhi, la mente e lo stomaco: crudele e vero, ci costringe a guardare in faccia la paura e l’orrore senza più potersi tirare indietro.
La tematica scabrosa è materiale incandescente fra le mani del regista, risolta però con eleganza e freddezza esemplare.
Nulla è particolarmente esplicito (e per questo risulta forse ancor più terribile e devastante) ma ciò che ci viene celato o mostrato in modo più o meno velato rifuggendo da ogni possibile tentazione splatter, fa davvero molto più male che se venisse sbandierato a chiare lettere, ed è l’atmosfera, l’ambientazione a fare la differenza, una atmosfera corrotta e “maleodorante”  che si muove di pari passo con la corruzione delle anime che si dibattono in un inferno senza redenzione: Klaus, orrido carnefice di un passato mai totalmente redento, e Angelo, volto e corpo glabri con un demonio che si dibatte nel suo cuore e una furia che nessuno sarà in grado di arginare.
 
Considerato da molti un vero e proprio film “maledetto”, Tras el cristal di Augustin Villaronga, è un’opera di straordinaria efficacia e di rara potenza formale, che mostra come l’orrore della storia (al pari di ogni altra violenza perpetrata)  sia capace di  contaminare anche la mente e l’anima delle giovanissime vittime che lo hanno dovuto subire, trasformandole a loro volta in implacabili carnefici  sadici e assetati di sangue. Lo stereotipo dell’innocenza infantile in  questo film del 1986, è dunque usato dal regista  come il necessario grimaldello per “scardinare” e far emergere il Male nascosto ma presente in quasi tutti gli individui (o l’aberrante fascinazione sottilmente perversa che esercita) e farlo diventare quasi l’unica “ragione” di sopravvivenza possibile e la sola strada percorribile.
Forse è davvero il punto di non ritorno di una poetica anche un po’ malata (o semplicemente distorta – ma non ci giurerei proprio, visto come stanno andando le cose) del mondo e dell’uomo, il confine “estremo” oltre il quale non  esiste  - non può esistere - più nulla, ma raccontato e messo in scena senza compiacimenti o morbose sollecitazioni voyeristiche, perché il cinema di Villaronga (praticamente quasi del tutto sconosciuto qui in Italia, o peggio ancora, colpevolmente dimenticato, visto che non se ne trova traccia nemmeno nei dizionari più celebrati come il Morandini o il Mereghetti, se si esclude la pellicola realizzata nel 2002, Aro Tolbukhin – En la mente del asesino, anch’essa però inedita in sala – che è già una parziale concessione a una visione comunque estrema ma più commercializzabile, realizzata in condominio con due filmmaker esordienti come Isaac-Pierre Racine e Lydia Zimmermann – che per altro e in maniera meno originale ed efficace, tratta una tematica molto vicina a quella di Tras el cristal, raccontando - questa volta con una forma meno mediata e quasi da docu-fiction - i terribili traumi che possono trasformare un uomo “per bene” persino in un serial-killer) non è mai pruriginosamente provocatorio o fine a se stesso, ma bensì sofferto e problematico nella sua “insostenibilità” tematica portata sempre alle estreme conseguenze.
E’ allora davvero poco accettabile la colpevole disattenzione che è stata riservata all’intera sua opera (probabilmente per ragioni  un po’ moralisticheggianti in “difesa di una presunta decenza”, immagino) nonostante che le sue pellicole siano state ospitate da importanti festival internazionali.
Tanto per citare alcuni esempi della trasversalità delle sue  incursioni nelle degenerazioni mentali, mai “manierate” o conformizzate a una modalità o ad un genere, e proprio per questo ancor più scomode e sgradite, ricordo due sue opere del 2000 (le uniche alle quali in qualche modo ho potuto avere un diretto accesso): El mar, e una stimolante (ri)lettura del “Giro di vite” di Henry James, Presence of Mìnd,  con Sandy Forst, Lauren Bacall e Harvey Keitel. Se  avessi avuto la possibilità di frequentarlo un po’ meglio (o anche semplicemente “un po’ di più”) potrei  a questo punto azzardare, considerando e valutando le sue ricorrenti ossessioni e il suo percorso di autore, che  il suo cinema non  ha mai personaggi ai quali è offerta (o consentita) una possibilità di scelta poiché per loro l’unica strada davvero percorribile è quella del dolore e della morte.
Con tale premessa, risulta  allora chiarissimo che la sua opera - e in particolare proprio questo Tras el cristal - può sconcertare, irritare, urtare, perfino disgustare o far storcere il naso, ma difficilmente  lascerà indifferente (o peggio ancora “neutrale”) lo spettatore.
 
Tras el cristal è il lungometraggio d’esordio con il quale il regista fornisce già una eccellente e matura prova di coraggio e di originalità: nonostante il tema trattato non sia dei più… diciamo così, “commestibili”, Villaronga è stato infatti capace di confezionare un film molto lucido nella sua follia distruttiva, senza mai indulgere ad eccessi di forma, interpretazioni sopra le righe, o forzature compiaciute. La storia, nerissima – e come si è visto particolarmente “sgradevole” - non  strizza mai l’occhio a nessuno (e a nessuno fa sconti). E’ lineare e composita al tempo stesso e mescola, dosandoli con destrezza e una assoluta padronanza del mezzo espressivo utilizzato, toni “bassi” da horror movie (mai “trash” però) a drammatici interrogativi “alti” che invitano a riflettere e meditare sulla fascinazione ineluttabile del male.
E’ probabilmente in assoluto, assieme a Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (anche se meno esplicito nelle immagini rispetto a questo), uno dei  film più scioccanti mai apparsi al cinema (nonché uno di quelli in cui  il tema omosessuale viene sviluppato su un versante quanto mai delicato). Oggettivamente però, qui l’omosessualità indotta che è determinante  per gli accadimenti, non rappresenta il fulcro centrale di un genere che in ogni caso di abissi senza nome e senza soluzioni ne ha raccontati parecchi in questi anni, come possono benissimo testimoniare per esempio i disperati protagonisti di Spetters di Paul Verhoeven (1979) o il solitario “visitatore notturno” del più recente  Il fantasma di João Pedro Rodrigues (2000).
La vicenda in sé è straordinariamente forte – persino disturbante, voglio sottolineare nuovamente - e molte sono le  sequenze francamente insostenibili  più per la mente che per gli occhi, è bene intenderci, però, poichè salvo qualche momento “inevitabilmente” crudele anche per lo sguardo, ogni passaggio, anche il più scabroso, è risolto sempre con la stilizzata eleganza della forma che non consente cadute nel grandguignolesco, e tutto è ottenuto – anche l’insostenibilità dell’orrore - utilizzando un accorto ed eloquente linguaggio cinematografico. Credo che sia  proprio per questo che è capace di attrarre e avvince lo spettatore nonostante le sue malsane atmosfere (o forse proprio grazie a queste), poichè come dice Angelo, il giovane protagonista del film, l’orrore è come il peccato, e come questo ha anch’esso il suo fascino.
Indubbiamente comunque, poche altre volte si è visto sullo schermo con analoga impietosa franchezza, a quali aberranti  bassezze può scendere e arrivare la perversa cattiveria dell’uomo, peraltro concretizzata in questo caso nella più esecrabile fra le violenze: quella verso i bambini che ci viene mostrata senza filtri o simbologie, dispiegata cioè nella  malsana  aggressività con cui vengono devastati e distrutti – fisicamente e mentalmente - gli esseri più puri e innocenti dello scibile umano. La degradazione sistematica dei corpi come degenerazione dell’animo e del pensiero, dunque (così si potrebbe sintetizzare e concludere).
Molte sono le fonti “ispirative” chiamate in causa da Villaronga per la stesura di quest’opera. Innanzitutto la storia di Gilles de Rais, rievocata anche dallo scrittore-filosofo Georges Bataille, che nel XV secolo uccise, dopo averli violentati e seviziati, migliaia di fanciulli (per rimanere in territorio italiano, potrei ricordare al riguardo anche il testo teatrale – spietata analisi di “perversione e potere” – di Massimo Dursi  La vita scellerata del nobile signore Gilles de Rais che fu chiamato Barbablù, dal quale se mi è consentito, vorrei riprendere alcune parole dal lungo monologo finale di autoaccusa e difesa del protagonista, che ben ci introduce e in maniera particolarmente esplicita, proprio a ciò  che il film ci racconta – sia pure in un altro e differente, ma non meno “tragico”  contesto storico-politico:  potremo così meglio immaginare le angosce che possono derivare dalla  visione del film di Villaronga se si decide di intraprendere questo doloroso e traumatico percorso: “ascoltate quel che Gilles de Rais faceva ai vostri figli. Venivano nettati e mangiavano cose che non sognavano esistessero. (…) Venuto il momento, nella stanza quasi buia Gilles e i servi o i cugini li appendevano ad una pertica con un laccio al collo urlando e atterrendoli,  ma prima che soffocassero completamente,  li liberavano ridendo, li consolavano, dicevano loro  che era stato un gioco, che si era voluto provare soltanto  se meritavano fortuna. Gilles li faceva poi bere vino caldo e riposare dalla paura. Poi, denudati, li sdraiava sul pavimento e  gli si sedeva sul petto o sul ventre ,mordendo e infierendo sui loro corpi, giocando e devastando i loro orifizi per segare infine  le loro bianche gole con  la sua affilata  daga, certe volte con un sol colpo, altre volte dolcemente perché il sangue colasse adagio e la stessa agonia si protraesse più a lungo mentre li stava possedendo commettendo il peccato di sodomia per soddisfare le sue concupiscenze carnali, consumate per il suo maggior piacere proprio mentre stavano rantolando nel sangue per utilizzare al meglio le ripetute contrazioni anali della morte (…) Certe volte ancora, si spezzava il collo al piccolo martire con un randello dopo averlo ripetutamente infilzato dal dietro lacerando le morbide carni del deretano. Gilles godeva su quei corpi sussultanti (…) li smembrava come fa il beccaio con gli agnelli,  era estasiato dalla sofferenza e dalla morte).
Utilizzo volutamente “queste” terribili frasi  nella impossibilità di attingere a quelle della sceneggiatura, poiché anche nel film poi è proprio affidata alla parola la terribile “evidenza” di molti accadimenti di un passato impossibile da dimenticare, sia pure nella splendida cornice di una esemplare impaginazione figurativa fatta  di immagini sostanzialmente “gelide” ma emotivamente non raffreddate, esaltate da una fotografia tutta dominata dalle due tonalità “fredde” per antonomasia, il blu e il grigio. Straordinario in questo senso è dunque l’uso del (non) colore, lattiginoso e quasi notturno (il regista ha ammesso di essersi ispirato alle tele del pittore belga André Vox), ma con improvvisi sussulti di rosso (vedi la sequenza del drappo che viene buttato nella tromba delle scale dopo l’omicidio di Griselda, quasi a sottolineare con questa improvvisa “vampata” purpurea, le origini iberiche del suo autore).
Ed è ancora la parola che comprova il frequente “passaggio di testimone” dal carnefice alla vittima nel raccontare anche il passato, attraverso il diario di quella diabolica esperienza di cattiveria cosciente, consumata per soddisfare le proprie insane pulsioni, prima negli angusti spazi dei campi di concentramento nazisti, e poi “reclutando” per strada con la lunsinga, sperduti e inconsapevoli fanciulli.
E’ dunque il tema della violenza contro i fanciulli (già al centro dell’ottimo film  di Narciso Ibañez Serrador Ma come si può uccidere un bambino?) un altro dei fulcri centrali dell’opera, ma non solo questo, ovviamente,  perché c’è anche il più volte  celebrato rapporto aguzzino/vittima (valgano fra tutto quanto sull’argomento si è scritto e mostrato, i richiami che si potrebbero fare per esempio a Il portiere di notte della Cavani in cui è ancora una volta la vittima ad essere connivente con il carnefice, quasi a volerne prendere definitivamente il posto, in uno scambio progressivo dei ruoli, o le sottili implicazioni rispetto ai sentimenti “disturbati” e contrastanti, che emergono dal più recente La morte e la fanciulla di Polanski, trasposizione in immagini del dramma teatrale di Ariel Dorfman). Ci sono poi quelli del rapporto padre/figlio, un’ascendenza tutt’altro che sotterranea e assolutamente perversa (non a caso Angelo, una volta insediatosi nella casa,  dice a Rena, la figlia, di essere lui il suo nuovo padre…) e del maestro/allievo, nella cui ottica, la storia potrebbe risultare addirittura analoga a quella successivamente ricalcata dal racconto che Stephen King ha scritto qualche anno dopo, L’allievo  e da cui poi Bryan Singer ha tratto il film dall’omonimo titolo, solo che Villaronga al contrario di King/Singer descrive davvero  tutto nella sua effettiva disumana crudeltà, senza filtri, chiamando le cose con il loro nome e senza ricorrere a metafore di alcun tipo col suo racconto sulle perversioni misantrope del nazista Klaus, pedofilo e carnefice, che riesce a soddisfare i suoi impulsi solo dopo aver saccheggiato e devastato i corpicini di fanciulli prigionieri  dei campi o raccolti per strada, e dove è proprio la morte come climax dei sensi il fine ultimo di ogni azione cruenta, il tramite per il piacere sessuale di una aberrazione che genererà sensi di colpa devastanti persino nei pochissimi superstiti che si è lasciata dietro.
Basta già vedere la prima scena per capire di cosa si parla, quella – particolarmente agghiacciante - in cui un ragazzo nudo appeso indecentemente per le mani al soffitto, è torturato (quasi sicuramente dopo essere stato stuprato) e ucciso a randellate: l’occhio della macchina fotografica, rivela da subito il ruolo tutt’altro che passivo dello spettatore, chiamato a “spiare” la fascinazione del male, che da ora in poi diventerà a sua volta un voyeur,  disposto (o costretto) a “osservare” scene tremende.
La struttura del film, claustrofobico nel suo stringersi sempre più attorno alla stanza col polmone d’acciaio (il “cristallo” del titolo) in cui si trova rinchiuso Klaus per sopravvivere, si sviluppa così come in una spirale, attraverso situazioni sempre più chiuse, che escludono ogni possibilità di fuga da questa maleodorante relazione sadomaso tra un ex nazista e un giovane da lui posseduto quando era un bambino, uno delle tante vittime di un atroce passato che non può più fare a meno del male.
All’inizio sembra che Angelo, ormai adulto, sia arrivato solo per vendicarsi del suo aguzzino: dopo avergli rivelato che conosce tutti i suoi segreti, non appena ne avrà l’occasione gli toglierà l’ossigeno, per farlo lentamente agonizzare senza però consentirgli di morire davvero, masturbandosi nudo su di lui spalmandogli in faccia lo sperma dopo averlo obbligato, immobile ed ansimante com’era, a fargli un pompino (replicando  a ruoli invertiti ciò che lui, da bambino, era stato costretto a subire) in un processo identificativo sempre più aberrante che lo indurranno, in un progressivo ribaltamento dei ruoli (la malattia invalidante rende l’uomo impotente e simile a un bambino indifeso) ad emulare le gesta del carnefice, ad identificarsi completamente in lui, a prendere il qualche modo il suo posto, procacciandogli nuove giovani vittime godendo e soffrendo contemporaneamente della loro agonia (due scene così “spaventose” nella loro esplicita crudezza da fare davvero paura).
Come si può ben comprendere, tutto confluisce dunque  in una visione quanto mai pessimistica, in cui ogni idea di innocenza è davvero definitivamente cancellata e dove il Male non può che perpetuarsi: chi lo respira o lo ha respirato,  ne rimarrà per sempre contagiato e alla fine non potrà più farne a meno. Come  Angelo, nella sua coazione a ripetere ciò che gli accadde da bambino, e come Rena, il personaggio più inquietante che – sedotta a sua volta  dal fascino del giovane - alla fine diventerà il nuovo deux ex machina della situazione (ed è semmai proprio il finale sul quale mi sentirei di fare qualche piccolo appunto: analogamente  minaccioso, ma abbastanza prevedibile in fondo, con la bambina che sembra a sua volta aver totalmente assorbito il malvagio potere distruttivo che impregna e contamina l’aria, trasformatasi quasi in un nuovo Angelo bambino, similare nelle forme e nelle vestigia, che “cavalca” e domina il polmone d’acciaio dentro il quale il male continua ad essere racchiuso e a “respirare”, per eternarsi in un percorso senza soluzione di continuità, allusivo e inarrestabile).
Costato la cifra irrisoria di 300.000 dollari, Tras el cristal, si riconferma dunque un film che ha davvero il coraggio di osare fino in fondo con la forza di un pugno sferrato con  la violenza della ragione nello stomaco di spettatori abituati ad orrori  molto più esangui, catartici  e blandi di questo e  che scava come pochi altri nella psiche umana, portando a galla tutto il marciume che ci alligna dentro e gli aspetti più nascosti e inconfessabili di un abisso davvero senza fine.
Merito, come ho già detto, di una regia molto curata  che da un lato è capace di guardare al thriller d’autore (la scena dell’omicidio di Griselda, moglie anaffettiva del carnefice, ricorda il Dario Argento dei bei tempi che furono), e dall’altro ha invece l’elegante raffinatezza del cinema d’autore.
Augustin Villaronga è assieme a Nacho Cerdá probabilmente il regista spagnolo più estremo, dotato però al contempo - come il collega - di una tecnica raffinata e coinvolgente che gli consente di scarnificare la mente  umana per sviscerarne i sentimenti  più oscuri, gli istinti più deviati. E’ di conseguenza inevitabile che questa crudezza diretta ed esplicita, metta in una posizione estremamente scomoda lo spettatore che si ritrova spiazzato e “nudo”, a sua volta incapace di “difendersi”, o anche semplicemente di proteggersi.
Osteggiato da molti proprio per i temi troppo forti (quasi insostenibili) che trattata, paurosamente gelido nel mostrare l’orrore  e il bieco (ma terribilmente umano) sentimento di vendetta, è un film che si è potuto concretizzare in un periodo particolare (e irripetibile) del cinema spagnolo, che dopo l’euforia del post-franchismo, stava scivolando su standard banalmente  commerciali e aveva un estremo bisogno di nuova linfa vitale. Per certi versi, fu dunque l’unico momento adatto, o meglio ancora, il solo possibile: in seguito, dopo i fatti  di pedofilia  di Dutroux  accaduti in Belgio, sarebbe stato certamente inammissibile il  toccare e trattare  con altrettanta forza  argomenti così delicati e talmente ambigui da poter essere facilmente (anche artatamente) fraintesi.

Sulla trama

Klaus è stato un gerarca nazista che ha nutrito e coltivato una insana  passione nell’abusare e nell’uccidere bambini dopo averne abusato.
Nella sua follia, con la guerra agli sgoccioli e la conseguente caduta del Reich, l’uomo deciderà di suicidarsi, ma fallirà nell’intento, restando invece paralizzato in modo tanto grave da dover vivere il resto dei suoi giorni chiuso in un polmone d’acciaio.
La vetrina del titolo rappresenta proprio “quel” polmone d’acciaio.
Ad occuparsi di lui, in una solitaria villa dove la famiglia si è rifugiata per sfuggire al tribunale di guerra, ci sono la moglie Griselda, sua odiosa metà (straordinaria Marisa Paredas che la interpreta) e Rena, la figlioletta adolescente. Questo, finchè non entrerà  in scena un giovane pseudo infermiere, Angelo, che rivelerà a Klaus di essere a conoscenza dei suoi segreti.
La simbiosi che si verrà  a creare fra i due (l’ex carnefice e la vittima) è il tema portante di tutto il film: il vegetale Klaus riuscirà  a rivivere (anche con riluttanza) certe emozioni solo un po’ sopite, proprio grazie ad Angelo, la cui interdipendenza però dal suo carnefice di un tempo, condurrà piano piano alla pazzia e alla perdizione.

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