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Dear Wendy

Regia di Thomas Vinterberg vedi scheda film

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La recensione su Dear Wendy

di leporello
8 stelle

   A detta del regista, i “Dandies” protagonisti del film, col loro pacifismo armato e il loro buffo codice d’onore, sono la proiezione microcosmica di una ormai consolidata realtà planetaria. Un film grottescamente politico, quindi, ma se guardato solo sotto quest’ottica (peraltro ineccepibile), il lavoro di Vinterberg perderebbe molto delle sue ricchezze, del suo fascino, e del suo macabro “romanticismo”.


   Dick & Co., con i loro variegati e fantasiosi travestimenti, insediatisi nel “Tempio” (una vecchia miniera abbandonata di una squallida cittadina medio-americana che vorrebbe riemergere, sontuosa, di una splendente misticità che non può appartenerle), non sono soltanto la metafora della contraddittorietà della civiltà attuale, e neppure soltanto un gruppetto di “loosers” che cerca (e crede di trovare) nel possesso delle armi il pretesto giusto, la molla per scattare in avanti verso il proprio riscatto. I “Dandies” sono anche dei (simpatici? teneri? pericolosi?) sognatori crepuscolari (non per niente è la musica degli Zombies a far loro da colonna sonora...) che, chiamandole per nome, umanizzano le loro pistole come in una favola, arrivando fino a dar loro diritto di voto nelle assemblee come fossero soci; sono i Quattro Moschettieri del ventunesimo secolo, ignari che la regina sia stata destituita ormai da tempo dal cardinal Richelieu, sono “samurai-del-nulla”, sono “sacerdoti-per-gioco” (e sul serio) che in buona fede, scioccamente professano una religione che non sanno essere impossibile, forse blasfema, sicuramente letale. In ciò, gioca un ruolo importante e fondamentale il personaggio di Sebastian, ultimo forzoso innesto nel gruppo dei “Dandies”, colui al quale sembra ed è “animisticamente” legata la pistola Wendy, il quale, pur essendo l’unico della banda a poter vantare delle vere conoscenze sulla materia che non siano derivate da sterili letture o da perniciosi tele-documentari di medicina legale pregni di velenosi nozionismi,  condividerà suo malgrado con gli altri le tragiche sorti del gioco perverso in cui si è trovato a partecipare, pur tentando fino all’ultimo di opporsi.


    Per contro, questo manipolo di sprovveduti e pericolosi non-eroi non ha nessun contraltare positivo (se non quello fatalisticamente insufficiente di Sebastian): la claustrofobica piazza in cui si svolge tutta la vicenda (qui risalta evidentissima la mano di Lars Von Trier, scrittore del film, che un anno prima aveva ideato quel capolavoro di “Dogville” su una simile concezione scenografica) ospita soltanto minatori rassegnati ed indolenti, poliziotti pigri e burocratizzati, e il resto della società civile altro non sa essere se non una miserabile vecchietta sull’orlo dell’Alzheimer che, senza saperlo, spingerà il bottone rosso che farà deflagrare tutta la storia, trascinando nel baratro ogni cosa.


    Wendy è sicuramente un film felicemente paradossale, simbolico, anche politico, è vero. Ma a me, che sono da tempo un tifoso sincero della “Zentropa”, è piaciuto guardare questo film come fosse un’operazione metafisica, surreale come le campane che suonano alla fine di “Breaking the Waves”, spietato come solo i registi danesi di questo filone sanno essere, cinico ma non baro, romantico e decadente insieme, ruvido, corrosivo, e al tempo stesso fatalmente consolatorio.


    Un’ultima annotazione: ho perso almeno un quarto d’ora di fermo-immagine, esasperando il mio anacronistico lettore DVD, ma nonostante ciò, da ignorante puro in termini di armeria e balistica,  non sono riuscito a capire  perché e come “Wendy” possa essere una funzionante pistola pur non avendo il grilletto... Altra genialità danese??? O sono anche io sulla via dell’Alzheimer come la vecchia Clarabelle??? Qualcuno mi può aiutare???

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