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La samaritana

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su La samaritana

di Aquilant
8 stelle

E’ tutta in salita la strada maestra che porta all’ascesi spirituale ed alla redenzione dai peccati pur se perpetrati per interposta persona. E l’atto della catarsi secondo la versione personalizzata di Kim-Ki-duk va a giustapporsi con la ripetizione ad libitum dell’atto di trasgressione nei confronti di una regola morale, apparendo proprio per tale motivo suscettibile di prevedibile realizzazione. Ma l’itinerario salvifico a causa del suo snodarsi attraverso un doppio percorso parallelo rispettivamente a base di spiritualità materializzata nella carne e di violenza tutelare elevata all’ennesima potenza appare quanto mai votato all’insuccesso proprio in virtù della stridente conflittualità determinatasi al suo interno a causa di due fattori opposti destinati irrimediabilmente a coincidere. E non potrebbe essere diversa la piega presa dagli avvenimenti in un mondo dominato dalla soffocante soggettività di uno sguardo autoriale che nella sua costante declinazione della lotta in chiave dicotomica tra il Bene ed il Male intesi come entità strettamente connesse alla natura dell’umano ed inevitabilmente giustapposte in un unico ciclo naturale, sceglie di tracciare le coordinate di un intreccio in cui giganteggia come predominante privilegiata il concetto della “perdita” intesa in tutte le sue varie significazioni. Ed investendo la protagonista Yeo-Jin a referente naturale, per così dire, di una sequela di concatenazioni di cause ed effetti ad elevato potenziale disgregante, l’autore finisce con l’imbastire una serie di situazioni limite in cui la sottrazione degli affetti gioca un ruolo predominante in un contesto in cui anche la violenza talvolta appare dissolta o, per meglio dire, stemperata in un impietrito “fuori campo” che a ragion veduta risulta ancora più agghiacciante di una lampante evidenza visiva, ed in cui il limite tra la vita e la morte si dimostra di una labilità disarmante.
Al nudo e crudo atto della donazione sessuale inteso come risarcimento d’una irreparabile perdita viene dunque conferita una valenza prettamente catartica. Il gesto di abnegazione, spogliato all’occorrenza dei suoi risvolti più crudi, è assurto ad atto sacrificale irto di sottili suggestioni che vanno a pescare direttamente tra le pieghe di un Oriente chiaramente evocato nel primo capitolo dell’opera.
Ma non mancano d’altra parte i riferimenti alla religione cristiana. E così come l’acqua di sorgente nell’episodio biblico relativo alla Samaritana rappresenta una metafora della vita conferita per potestà divina, allo stesso modo l’immagine della doccia purificatoria cui si assoggettano a turno Jeo-yin ed il padre nel loro voler scrollarsi di dosso le impurità del peccato viene ad assumere una valenza prettamente allegorica.
Il flusso dell’acqua quindi è visto come un vero e proprio scorrere dell’energia vitale, una sorta di rinnovamento in contrapposizione alla rigidità cadaverica della morte. Kim Ki-duk infatti disegna dei personaggi che sembrano non volersi rassegnare al crollo subitaneo di ogni aspettativa, costringendoli a percorrere vie ostinatamente traverse, attribuendo loro delle reazioni che vanno ad esplorare di sghembo l’intero campo delle proprie possibilità, spiegabili unicamente alla luce di un più ampio disegno narrativo in cui ogni pedina della scacchiera appare sottoposto ad una complessa dinamica cui l’ombra di una contingente spiritualità religiosa, come già constatato, non è affatto estranea, seppure trattata con intenti chiaramente sincretistici. Stridente a questo proposito è la contrapposizione tra i riferimenti a Vasumitra, leggendaria figura di prostituta indiana che tramite l’atto sessuale procura proseliti alla religione buddista e la figura cattolica di Maria Teresa di Calcutta, evocata nell’ambito di un’ipotetica proposizione di guarigione carismatica. Riferimenti posti in essere che travalicano la sfera dell’umano per oltrepassare le porte dell’ultrasensibile, soggetti peraltro a crescente rarefazione nel terzo capitolo, “Sonata”, che sembra fungere da battistrada alle successive tappe di un cammino in direzione del regno dell’assoluto SILENZIO, di un grado zero di scrittura capace di amplificare il predominio dello sguardo sulla parola, (ri)portando all’attenzione tutti quei particolari confusi nel biancore dell’indifferenza, destinati altrimenti a naufragare tra le miriade di ammennicoli extrastrutturali della nostra società dei consumi. Perché nonostante le mille difficoltà destinate ad intralciarne il percorso, appare irrinunciabile l’irreversibile ricerca da parte dell’autore di un ideale di bellezza assoluta tramite un cinema che si disvela in tutto il suo candore immacolato intinto nel rosso di un sangue propiziatorio. Ed è proprio per tale motivo che il suo urlo nel silenzio giunge spesso a toccare il cielo.

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