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Fracchia la belva umana

Regia di Neri Parenti vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Fracchia la belva umana

di frankwalker
6 stelle

D’accordo. Il soggetto è logoro come un vestito vecchio. La regia quantomeno maldestra di Neri Parenti lascia il tempo che trova, in perfetta linea con la produzione più schiettamente televisiva che, dagli inizi degli anni Ottanta in poi, avrebbe imperversato nel nostrano cinema d’intrattenimento lasciando margini ogni volta più caciaroni, beceri, infimi.
Tra le mani di Paolo Villaggio e dei suoi abituali sceneggiatori Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, però, lo spunto alla base di “Fracchia, la belva umana” acquista, col senno di poi, le connotazioni di quella comicità farsesca di puro stampo popolare che avrebbe avuto tutto il tempo, in seguito, per prosciugare la propria carica. Il genio comico cattivista e irriverente del ragionier Fantozzi si sposa a meraviglia con una passerella di figurine che, a tutt’oggi, mantengono inalterata la forza del vero cinema popolare: dall’imbranatissimo commissario Auricchio (un Lino Banfi strepitoso mattatore) a un trio di rapinatori (Massimo Boldi-Francesco Salvi-Roberto Della Casa) che sembra un riadattamento demenziale della banda Bassotti (sempre vivo, però, l’eco de “I soliti ignoti”), dalla solita sboccatissima Anna Mazzamauro (la signora Corvino) a un Gianni Agus inarrivabile nel ruolo del vessatore, a un Gigi Reder sempre irresistibile nei panni della mamma della “belva umana” del titolo.
Certo, una comicità facile, infantile, in più d’una circostanza scontata e non esente dalle scatologie imperversanti in quegli anni. Ma una comicità pura che, benché faccia arricciare il naso ai gusti più fini, trova senza problemi il proprio seguito in un pubblico semplice ma genuino. E Villaggio è impagabile in un duplice ruolo di vittima e carnefice (non privo, però, di qualche punto debole), che al momento opportuno riesce a volgere la situazione a proprio favore, rispolverando i classici cinematografici (da “Tutta la città ne parla” di Ford, all’origine del plot, a “Il cielo può attendere” di Lubitsch, all’alleniano “Prendi i soldi e scappa”) e riadattandoli alla propria verve sardonica e feroce. Benché l’Albertone nazionale, in quello stesso anno, si fosse servito di un’idea analoga per “Il marchese Del Grillo” di Monicelli, ma – a pensarci – una decennio prima che l’altro genio irriverente della comicità made in Italy, Roberto Benigni, realizzasse “Johnny Stecchino”.
Una fucina di situazioni e battut(acc)e entrate nella memoria per una pletora di (stra)cultori: dal trucido menù al ristorante degli zozzoni (“Saltinculo alla mignotta... Fagioli alla scurreggiona...”) al tét-à-tét tra Fracchia e il guardiamacchine (“Ma va bbene ’n cazzo, ’un vedi che s’ì troppo sotto te e ’sta culona?!”), sino all’altro vìs-à-vìs tra il commissario e lo stornellatore (“Non so’ Frocione, / non mi chiamo Frì frìii... / Sono commissério, / e ti faccio un culo cosìii...”). Indimenticabile, poi, la corsa di ginnastica che apre il film col protagonista in lotta con la cicciona Fiammetta Baralla, sulle note accattivanti di Fred Bongusto.
Un prototipo che, come già nel caso di “Fantozzi”, aveva detto tutto, e in confronto al quale il capitolo secondo “Fracchia contro Dracula” (stessi regia e interprete), già più curato e meno divertente, non può che sfigurare.

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