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Million Dollar Baby

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Million Dollar Baby

di spopola
9 stelle

Un aggiornamento “indispensabile” e necessario alla mia vecchia critica su questo capolavoro espressa frettolosamente e a “caldo”.Meritatissima la messe di Oscar raccolta da questa pellicola nella competizione di qualche anno fa (uno dei più giusti ed equilibrati verdetti di un premio che troppo spesso lascia invece a desiderare perché più attento alle necessità del mercato che alle qualità oggettive delle opere in concorso). La regia, che sfiora spesso con intelligenza assoluta il clichè e l’effettistica senza però cadere mai nel “tranello” del melodramma strappalacrime, è perfetta e appassionata: un film “di genere” che parla d’altro ed è soprattutto una attenta e intensa riflessione sull’America e sulla sua cultura, realizzato con una classicità sconvolgentemente moderna grazie anche a una sceneggiatura esemplare che sa dosare alla perfezione i vari ingredienti del racconto, una qualità questa sempre più rara nel deprimente panorama della cinematografia contemporanea, spesso superficiale e imprecisa proprio sotto il profilo della scrittura. Per me, di gran lunga superiore non solo al già notevole “Mystic River”, ma anche allo straordinario dittico della presente stagione (“Flags of our Father” e soprattutto “Letters from Iwo Jima” attualmente in programmazione, altro incomprensibile Oscar mancato che conferma la assoluta miopia dei membri giudicanti). Insomma in un percorso che molte volte ha rasentato il sublime, a mio avviso questa pellicola resta ancora la sua opera più sentita e sofferta, un “resoconto” che scava nella profondità dell’anima, ti avvolge e ti appassiona perché riesce ad essere struggente pur evitando pericolosi eccessi di patetismo che avrebbero fortemente inficiato il risultato della rappresentazione di una storia di per se persino banale, se si escludono le implicazioni morali e tutto quello che di vero e profondo ha saputo trasferirci dentro il grande Clint, ben oltre il pur pregevole “racconto” di partenza disponibile in libreria per chiunque sia interessato al confronto. Dinanzi alla stupefacente grandiosità di questo capolavoro assoluto, realizzato con mano ferma e attenta calibratura di immagini e parole, che tiene ben presente (e fa tesoro) della lezione del cinema dei grandi Maestri della classicità hollywoodiana di un passato glorioso ma ormai irrimediabilmente perduto, si rimane davvero sconcertati (scoraggiati) di fronte alla presunzione e alla pochezza di molti pesudo-innovatori che spesso pretenderebbero di essere innovativi e assoluti, ma vanno invece poco oltre i videoclips d’autore, col loro velleitarismo estemporaneo… E allora verrebbe quasi da dire guardandosi intorno (forse con un pizzico di irriverenza)…: “dopo di lui il diluvio” (o quasi)!!! Regista reazionario e di destra? Può darsi che questa sia la sua connotazione politica, ma gli esiti delle sue opere, indipendentemente da quelle che sono le sue “personali linee di orientamento politico”, lo pongono in una dimensione di apertura totale così progressista e moderna che dimostrano e confermano una volta di più se ce ne fosse ancora bisogno, come in ogni caso la vera sensibilità e l'arte sono “concetti” ed “espressioni” che non hanno – né possono avere - connotazioni di colore o di schieramento: quando le opere sono davvero sentite, quando si è “autori” e “artisti”, i risultati non possono che andare in una direzione, e questo è inconfutabile (certi soloni della nostra destra ottusa e reazionaria dovrebbero arrendersi di fronte a questa inalienabile verità)!!! Tornando al film, la prima parte è più “conforme” e normalizzata (potremmo definirla una consueta “storia” di aspirazioni frustrate ambientata nel marginale mondo della boxe, pur trattata con una insolita analiticità densa di annotazioni molto riflessive e un tratto personale singolarmente volto a privilegiare il versante sociale rispetto alla possibile “spettacolarizzazione” del tema) ma è il percorso necessario e indispensabile per definire non solo il contesto, ma anche le personalità (e i “movimenti dell’anima”) dei vari “attori in commedia”, un crescendo polifonico di voci che piano piano ti avvolge, aumenta di intensità fino ad esplodere in uno finale che potremmo semplicemente definire “magistrale”: i 45 minuti della parte conclusiva, così delicati quasi pudichi, sofferti e tragici nel loro epilogo catartico, sono la strepitosa sintesi di un’opera che può essere letta anche come una imprescindibile assunzione di responsabilità verso quelle generazioni che stanno progressivamente perdendo (se non lo hanno già fatto del tutto) ogni punto di riferimento non solo strategico, ma anche comportamentale, quasi una “Via Crucis laica” schiva ed essenziale che non può assolutamente lasciare indifferenti o insensibili. E che stupefacente resa attoriale a partire dalla Swank, una indispensabile, dimessa e carismatica presenza, ancor più brava e coinvolgente del solito (penso alla analogamente strepitosa prova anche mimetica di “Boys don’t cry”). E ancora Morgan Freeman (sublime e sofferto), Colter e Baruchel entrambi bravissimi e insostituibili nelle loro caratterizzazioni in “punta di penna”, per finire proprio con l’altro protagonista assoluto che dovrebbe far recitare reiterati “mea culpa” a tutti coloro che in tempi lontani lo avevano troppo frettolosamente definito come un attore capace di due sole espressioni: quella col sigaro quella senza: Clint Eastwood esemplare e monolitico nella rappresentazione della sua sofferente causticità, mai così intenso e appassionato, davvero grandioso qui non solo come regista, ma anche come interprete di rango.

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