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Il dono

Regia di Michelangelo Frammartino vedi scheda film

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La recensione su Il dono

di Peppe Comune
8 stelle

Caulonia, provincia di Reggio Calabria, un paese incassonato nella roccia che si erge a promontorio sulla costa jonica fino a trecento metri di altitudine. Un vecchio contadino (Angelo Frammartino) vive da solo nella sua casa di campagna. Un giorno recupera un telefonino che qualcuno ha perso nel suo terreno, come una foto pornografica che tiene steso sul tavolo e che guarda continuamente quando consuma i suoi pasti frugali. Il telefonino suona continuamente, ma il vecchio non sa come usarlo. Quei due oggetti lo rimandano ad una modernità che non gli appartiene. Una ragazza (Gabriella Maiolo) arriva tutti i giorni in paese con la bicicletta, si mostra servizievole con tutti e si sottopone a dei strani “magheggi” perché si crede che sia affetta da qualche maleficio. La ragazza è solo una povera disadattata, aspetta sempre giù al paese che qualcuno gli dia un passaggio fino al centro antico. Sono quasi sempre maschi quelli che la caricano in auto che, approfittando della situazione e della sua arrendevolezza, abusano del suo corpo. Il vecchio e la ragazza incroceranno qualche volta le loro vie e avranno modo di capirsi a vicenda.

“Il dono” è il primo lungometraggio di Michelangelo Frammartino, un film che si nutre di sguardi malinconici e dei suoni della terra, non ci sono dialoghi, solo monosillabi masticati in stretta confidenza, come parole che nascono mute, sparse al vento. Nei film di Frammartino i veri protagonisti sono i luoghi, la montagna, il mare, la spiaggia, la campagna, il frutteto, il paese, la piazza, la barberia, la tabaccheria di fronte alla panchina, le vie scoscese, luoghi vivi e presenti al mondo, capaci di inglobare ogni cosa nella memoria florida che gli appartiene, fino a rendere evidente la marginalità dell’uomo rispetto ad essi, fino a legare al proprio destino quello di intere popolazioni. I ritmi della vita di paese scorrono lenti, la calma si addensa lungo i vicoli che si arrampicano intorno alle case, la fissità stampata sui volti dei suoi abitanti non mente mai, aspettano il giorno dopo. Caulonia è andata spopolandosi nel corso degli ultimi decenni, ora è abitata da poche migliaia di abitanti, soprattutto anziani. Frammartino ci porta in giro per un paese immobile, lungo le strade fantasma e la bellezza dissidente, a raccogliere notizie e a catturare impressioni. Ci sono i piccoli esercizi commerciali che ogni giorno aprono i battenti ma che quotidianamente non fanno affari, le vecchie vestite di nero che parlano una lingua sconosciuta, altre che “curano” i malocchi, gli animali per la strada, motori che rompono il silenzio, nudi di donne a tappezzare i muri, il sesso consumato in macchina, i rottami degli elettrodomestici e le carcasse delle automobili che inquinano la bellezza vergine del paeseggio, una barca arenata sulla riva, un pallone che ruzzola indisturbato fino a perdersi nella scarpata. Frammenti di vita di un paese che sta cambiando faccia e sentimento, un paese che non ha scelto volontariamente di estraniarsi dal mondo, ma ne è stato estromesso dalle sue logiche omologatrici. Istantanee rubate a un mondo che non aspetta. Frammartino osserva senza giudicare, documenta senza qualificare, e ci invita ad osservare l’ineluttabilità di un destino sfuggente attraverso il percorso esistenziale di un vecchio contadino (che è il nonno del regista) e una povera ragazza disadattata. Due anime solitarie in balia dei venti del cambiamento, che hanno il tempo di incrociare i rispettivi sguardi e donarsi l’un l’altro quel poco che di loro possono mettere a disposizione. Per potersi emancipare dai ricatti dei più forti l’una (come suggerisce la vespa donatagli dal vecchio, che può consentirgli di arrivare da sola e più veloce al paese) e per potersene ritornare senza rimpianti di sorta alla madre terra (come invece ci suggerisce il finale, che omaggia con un‘evidente citazione il cinema di  Abbas Kiarostami). Come la natura dona quotidianamente i suoi frutti, così l’uomo è pronto a scambiare i suoi doni secondo una ritualità antica che si sottrae alle leggi della modernità. Il cinema di Michelangelo Frammartino parla un linguaggio inconsueto nel panorama del cinema contemporaneo, teso a riprendere i sapori perduti di una volta come per volerne attualizzare la carica vitale che ancora possiedono, un linguaggio che sembra sospeso in un tempo che non va ne avanti ne indietro, in attesa che qualcuno ascolti le parole antiche di una bellezza eterna.

 

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