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Tropical Malady

Regia di Apichatpong Weerasethakul vedi scheda film

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Badu D Shinya Lynch

Badu D Shinya Lynch

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La recensione su Tropical Malady

di Badu D Shinya Lynch
10 stelle

 

Lo Zio Boonmee è stato qui

 

"È un problema di spazi. Nei film si ha a che fare con una continuità temporale piuttosto lineare che si svolge in un luogo immateriale, lo schermo. È una sfida eccitante, dare forma alla propria idea in questo spazio delimitato. Lo spettatore poi però porta le sue conoscenze, il suo vissuto, in quella continuità delimitata, e le integra nella narrazione. È proprio questo che mi affascina nel girare un film."

- Apichatpong Weerasethakul -

 

Tropical Malady è un film sfuggente o, meglio, sfuggito, cioè già al di là, già fuori, andato. Ed è per via di questa assenza, che il pubblico necessita e si avvale della rievocazione, così da far tornare a galla i sentimenti più reconditi, le indescrivibili sensazioni e le suggestioni sepolte, quindi riportare alla memoria tutto ciò, proprio perché mancante. Cinema, allora, come richiamo e ricostruzione continui, sospeso in uno spazio etereo, incorporeo, in cui tutto è quindi un ciclico e ieratico divenire parte integrante del cosmo, come un periodico manifestarsi al mondo, ed ogni cosa, a quanto pare, si presenta e si celebra attraverso la soggettività della rimembranza con la quale il pubblico si approccia a questo film, come una sorta di commemorazione vitalizzante. Forse, conseguente al fatto che chi scrive lo definisce un lungometraggio "sfuggito", risulta opera rifugiata, sicché nascosta all'interno dello spettatore, nella sua più insondabile profondità, cioè quella che, insieme alla mente libera(ta), tira fuori le immagini dal film - crea il film, a cui ognuno assiste e reagisce a seconda della propria personalità e del proprio vissuto - formandole e personalizzandole, cioè dandole un nome, un volto, una strada, una continuità, e tutto questo in base al percorso vitale e alla predisposizione spirituale a cui ognuno, per affrontare questa visione, inconsciamente attinge. Un'opera che emerge dall'anima, dal trascorso dello spettatore, di conseguenza un'esperienza (anche) sensoriale che prende vita dal buio, un buio uterino, nel quale l'essere vivente si immerge per specchiarsi e, successivamente, rinascere e riconoscersi, attraverso un simbolismo procreante, impresso in uno spazio infinito e rimandante, contenitore di vite precedenti, immagini già assaporate, familiari, vicine e assimilabili nella loro impenetrabilità ontologica, che divengono modelli riconoscitivi intimamente universali.

 

Tropical Malady è un'opera che si fonda sull'inesistenza, proprio perché palesa un'esistenzialità in perpetua metamorfosi, quindi imprendibile in quanto mutevole, che mostra l'essenzialità del non esistere come unico corpo, nonché l'inesistere come (e in) una riconciliante entità polimorfica. Quindi un vedere continuamente sé stessi, tramite un sé informe, proprio perché multiforme, costantemente cangiante. Tra l'altro, è una pellicola apparentemente scollegata, differenziata, ma intrisecamente collegata, ed è lo spettatore con la sua primordiale emotività che funge da collante tra queste due differenti dimensioni esistenziali, che sono, in realtà, due facce della stessa medaglia. L'opera di Weerasethakul è onirica considerazione sull'importanza della memoria e sulle angosce legate alla vita - quelle ataviche, ma anche quelle attuali. Un film a struttura binaria, improntato sui ricordi, i quali risultano necessari per far sì che la prima parte approvi la seconda e che la seconda approvi la prima; traducibile, allora, come tragitto, cinematografico e non, che non ha un inizio o una fine, ma piuttosto una centralità pluridirezionale - intesa come equilibrio spirituale che prescinde ogni tipo gravità formativa -, che è iniziatica e sacrale, iniziale e finale insieme, quindi perpetua implosione di vita e di morte, cioè rendendo il vivere e il morire inseparabili parti dell'essere, ribaltando i concetti dell'Uomo moderno e modernizzato, per far sì che esso possa soprammorire alla corruzione della vita odierna, alla snaturalizzazione dell'anima, fino ad eternizzarsi. Un film che sfida la bulimica voracità cinefila del pubblico occidentale, che quindi è già oltre esso, più avanti e, soprattutto, più in alto, che, come la tigre che sta al di sopra del soldato e divora chi gli si concede, libera l'essere umano sotto un punto di vista corporale e sentimentale, ciò che, appunto, accade anche allo spettatore attraverso una mistica catarsi.

 

Tropical Malady è un'opera figurativa, che si fa anche deviazione simbolica, che sfiora il reale e, sfiorandolo, lo rende inviolato, cioè più vero e puro, autentico, nonché incontaminato, quindi un reale intoccabile che per diventare tale deve essere trasceso utilizzando un galvanizzante linguaggio surreale, ecco che quindi viene mostrata la realtà dimostrando quanto essa sia paradossalmente irreale proprio perché in costante evoluzione e detonazione, quindi inarrivabile e incontrollabile. Una realtà chiusa in vetrina, protetta. Il film, sfiorando il reale, ne dimostra anche la sua impossibilità d'esistere in maniera evidente o, meglio, classica, per via di una disomogeneità spaziale nella quale è presente un'effimerità destinata a reiterarsi, che concerne la ripetizione, il ripresentarsi dell'essere nel mondo, quindi un non-essere immortale. Il regista thailandese crea un film biunivoco: i due personaggi principali raffigurano due divergenti mondi sociali, divergenza riscontrabile anche nella quiete luminosa della prima parte rispetto all'oscurità smaniosa della seconda.

 

Tropical Malady è, in un certo senso, il lavoro più "metacognitivo" del regista, il quale rappresenta un'opera di rottura, nonché la pellicola da cui nasce tutto il cinema successivo del filmaker thailandese. Un lungometraggio spiazzante, ipnotico, sottocutaneo, magico e rigenerante, che guarda dentro l'anima dello spettatore, scuotendola e avvolgendola, senza però mai veicolarla direttamente, senza mai prenderla per mano, ma lasciando che essa si muova da sola, alla ricerca della propria dimensione, della propria giungla nella quale liberarsi e, soprattutto, bestializzarsi, quindi ritornare al sé primigenio. Viaggio percettivo, liberante e soprannaturale. Un film che punta verso l'infinito, infinitizzando lo spirito attraverso la forza del ricordo. La memoria manda avanti la vita, rendendo ritmica l'esistenza, palesando la forza del passato e, allo stesso tempo, del futuro, nonché di altre esistenze, nullificando l'oblio e perpetuando l'essenza dell'assenza, che si fa immortale presenza interiore.

 

Cinema come possessione sciogliente e ricongiungente, in cui durante il cinquantaduesimo minuto si torna ad essere animali, a stretto contatto con il proprio spirito ed istinto. Ecco che allora ci si immerge nel buio per ritrovarsi e diventare un tutt'uno con la natura, la quale risulta essere il controcampo dei sentimenti, delle emozioni dei personaggi presenti nel film. Quindi rendere disinquinato il sentimento, naturalizzandolo, riportandolo alla sua origine salvifica e selvaggia, ricercando quella bestialità necessaria. Ritrovare quel suono armonico e armonizzate. Arrivare quasi a spersonalizzarsi e trascendersi, pur di ripristinare l'interiorità del riconoscersi, dell'essere familiari a sé stessi nonostante la diversità immedesimativa, nonostante il cambio vitale. Essere intuitivamente riconoscibili, come vedersi riflessi per sempre - Keng che tramite la tigre si identifica ed individua l'altro che fa parte della propria persona , entrando così in un loop interminabile di apparenti scissioni ed interminabili ricongiungimenti. Tutto diviene un rincontrarsi spiritualizzato. Un inconscio reiterarsi attraverso l'unicità naturale, in un primitivo luogo dilatato, che diventa tale grazie alla memoria collettiva. Più che concedersi alla morte, è un donarsi alla vita, morendo.

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