Regia di Chan-wook Park vedi scheda film
D'un lirismo disperato e straniante, la pellicola di Chan-wook Park si staglia nel firmamento cinematografico contemporaneo con impeto e sfrontatezza. Entra nella storia del gangster movie asiatico dalla porta principale. Sfondandola. Violenta i limiti strutturali e narrativi propri del genere, rielaborandone tematiche, codici espressivi e sottotesto assiologico. Ciò che viene presentato come un denso apologo sulla Vendetta, sulla cieca e doverosa disinfezione di ferite inferte all'Onore, si traduce presto nel proprio contrario. Perdono e riconciliazione si fanno strada, inesorabilmente, coraggiosamente, tra brandelli di corpi e spremute d'essere umano. La sofferta accettazione di sè, delle proprie DISonorevoli mancanze, è inevitabile, dovuta, lancinante. E il valore salvifico dalla dimenticanza, del sapersi mettere in discussione, ne può molto di più, qui ed oggi, del più epico ed eroico dei hara-kiri. Gli stereotipi di tanti 'yakuza-movie' (anche di buon livello) vengono così ribaltati, quasi 'dissacrati', con lungimiranza ed enfatica consapevolezza. Visivamente straordinario e retto saldamente su una sceneggiatura lucida e spiazzante, il film di Park riunisce in sè la migliore ritmica tarantiniana, l'epos fiammeggiante della tradizione cinematografica orientale, il gusto grandguignolesco di Takashi Miike, la vena spirituale delle avanguardie coreane, l'estetica postmoderna e paranoica del migliore Tsukamoto e la struttura polifonica e (dis)articolata tipica della tragedia shakespeariana. Quasi capolavoro.
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