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I diari della motocicletta

Regia di Walter Salles vedi scheda film

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giancarlo visitilli

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La recensione su I diari della motocicletta

di giancarlo visitilli
8 stelle

“Perché siamo due destini che si uniscono, sempre, in un istante solo…”, avrebbe potuto essere la colonna sonora ideale per il bel film di Walter Salles, I diari della motocicletta (in Concorso al 57mo Festival di Cannes 2004). Il tormentone dei Tiromancino, infatti, ben sintetizza la storia del film, tratta dai diari di viaggio di Ernesto Che Guevara e del suo amico Granado. Si tratta del racconto del viaggio (soprattutto interiore) che Ernesto (detto El Fuser) compie sulle due ruote di una Norton 500 (detta La Poderosa) e in compagnia dell’amico Granado (detto Mi Al).
I diari della motocicletta è il segmento di due vite, un ventinovenne e un ventitreenne, durato solo otto mesi. Alla fine è il risultato complessivo di tutta la vita.
Sicuramente il film di Salles diventerà un cult del cinema, non solo per la fascia di spettatori che simpatizzano per l’estremismo politico. Chi può dire di non avere mai avuto, almeno una volta nella vita, il rimpianto per certi ‘viaggi’ che ti avrebbero cambiato l’esistenza? Per quel viaggio in cui “si viaggia per viaggiare” per dirlo con le stesse parole del Che?
Salles ha fatto un film onesto, privo di quella vena nostalgica, nella quale ognuno sarebbe potuto incappare, dovendo raccontare la storia di un uomo così importante per la cultura d’ogni tempo e paese. Non è un film di sinistra, ma neanche un film di destra (direbbe Gaber). Bisogna senz’altro riconoscere la grande maestria di Salles nel dirigere gli attori. Il messicano, oltre che bellissimo Gael Garcia Bernal, nelle vesti del Che, buca lo schermo; altrettanto Rodrigo de la Serna nella parte dell’amico Granado. Salles sembra esasperare i diversi caratteri dei due personaggi, riconducendoli, alla fine, su un’unica strada, punto di partenza e di ritorno. Ma con una nota in più: il cambiamento.
Se nella prima parte del film il regista racconta la geografia, compresa quella dei sentimenti, con il mestiere di chi sa scrivere, guardare e raccontare l’’on the road’; nella seconda, il tema del viaggio s’incarna e diventa cambiamento, percorso, strada. Già con il bellissimo Central do Brasil, lo stesso regista aveva saputo raccontare la storia dei disperati, degli ultimi del mondo, senza alcuna pretesa di voler neanche accennare agli eventi politici “che pur si muovono”, in quelle zone della terra, non molto distanti da noi, essendone stati per primi i veri colonizzatori. Con ciò non si può neanche minimamente affermare che Salles è un disimpegnato. Anzi. La sua maestria consiste proprio nella non esaltazione agli onori degli altari, neanche di quei personaggi che hanno fatto la storia, consapevole che “la storia siamo noi”, come canta ancora un nostro cantautore. Le migliaia di chilometri sulle due ruote, una buona parte a piedi, dall’Argentina al Cile, dal Perù alla Colombia al Venezuela, svelano civiltà paradossalmente prossime ma sconosciute, ormai dimenticate o ricordate solo da ‘certi’ libri di storia, le cui lingue sanno ormai di antico. Sfruttate, sterminate e poi dimenticate nell’oblio della storia degli ultimi, quel che rimane ancora di quelle civiltà, ancora oggi paga il duro prezzo di un capitalismo, non ancora restio ad abbandonare la sua strada, specie nell’Americalatina. La dura condizione degli operai e dei neri, il dilagare della violenza civile, la paura del conflitto atomico sono oggi i mali di una parte (il Sud del Sud) di quello stesso Paese, la cui bandiera, qualcuno ci ricorda essere “simbolo di pace e democrazia”. Alla faccia dei messicani, degli argentini, dei cileni, dei cubani… degli iracheni.
Sottile, ma straordinaria, la differenza culturale, sociale e antropologica fra le popolazioni, messa in atto da Salles, da far invidia al più grande antropologo: “c’è il popolo Inca e quello degli incapaci (i colonizzatori)”. Non ne risparmia nessuno, neanche l’’esercito della Compagnia di Gesù’, che in quelle terre dell’America del Sud ha lasciato la sua impronta e di cui ancora oggi v’é traccia, nei mausolei, costruiti all’ombra della povertà, come ‘cattedrali nel deserto’.
Salles ha la capacità di farci guardare quella parte del mondo con lo stesso sguardo del Che, attraverso le foto in bianco e nero, ritraenti i volti scavati e consumati dalla povertà dei contadini. Ci si sente tutti un po’ ‘medici’, alla stessa maniera di Ernesto, perché alla fine la malattia è ciò che ci accomuna; anche se di ben altra malattia si tratta, piuttosto che dei nostri miseri raffreddori.
La fine del viaggio coincide con l’inizio: la ricerca di una possibile uscita dal male che governa ieri ed oggi il mondo. Una presa di coscienza, non senza alcun rimpianto, per non aver fatto nulla dinanzi a “tanta ingiustizia”. Hasta la pax!
Giancarlo Visitilli

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