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L'alba dei morti viventi

Regia di Zack Snyder vedi scheda film

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La recensione su L'alba dei morti viventi

di Immorale
8 stelle

Giorni fa, leggendo un articolo di Valerio Magrelli su Repubblica a commento dell’uscita di un saggio del filosofo Rocco Bianchi intitolato “La filosofia e i morti viventi”, ho scoperto che il mito nacque (come noto) nell’isola di Haiti, ma più precisamente la loro patria sarebbe “Hasco, sigla di un gigantesco impianto dove si produce rhum e si raffina zucchero. E’ appunto in questo territorio, con i braccianti pagati una miseria, che nasce ufficialmente la leggenda. L’incubatrice dei morti viventi, insomma, è rappresentata dalla fabbrica, dal lavoro salariato, dallo sfruttamento, dalla proletarizzazione dei contadini, dai problemi connessi allo sviluppo dell’economia capitalistica in un’isola caraibica […]”. Pertanto, fin dalla loro nascita cinematografica avvenuta nel 1932 col film “White Zombie” di Victor Halperin, e successivamente con la lunga saga del grande Romero, la loro portata è stata “correttamente” rappresentata per definire un’idea “mainstream” di sociologia cinematografica legata a doppio filo alle differenti realtà politiche succedutesi nel corso dei decenni. 

 

 

Snyder, in questo remake del film di Romero del 1978, impone (insieme allo sceneggiatore James Gunn) un ulteriore aggiornamento al personaggio: gli zombies diventano pertanto velocissimi (come in “28 giorni dopo” di Danny Boyle, ad ambientazione però inglese) oltre che inesorabili e, se possibile, ancora più famelici dei loro fratellini degli anni settanta. Come la frenesia consumistica montante degli inizi degli anni 2000, paradossalmente “fiacca” se rapportata all’odierno.

 

La forma scelta, quindi, è quella di un convulso film d’azione (con qualche inopportuno ralenty) senza (quasi) un attimo di respiro, che si ispira all’originale ma che riesce a seguire una strada autoriale autonoma seppur più “popolare”. E’ noto che il regista americano dà il meglio di sé negli incipit (la grandiosa introduzione del film “Watchmen”) dove, con la commistione immagini/musica, può riassumere (o reinterpretare) un’epoca o, in questo caso, inquadrare l’unità di luogo drammatica (espediente imprescindibile in un film post-apocalittico). 

 

E allora la rutilante sequenza iniziale sulla diffusione del virus, con il continuo ribaltamento di prospettiva visiva tra la personale lotta per la sopravvivenza di Ana e la progressiva distruzione della città, ci trasporta fino alle risapute ma suggestive carrellate sul decadimento generale ed il caos mondiale imperante sulle note della spettacolare e apocalittica “The man comes around” di Johnny Cash. 

 

 

La maggiorparte dell’azione si svolge poi all’interno del centro commerciale, con poche variazioni sui classici temi della regressione sociale e del progressivo decadimento della speranza di sopravvivenza del gruppo di sventurati, intrappolati in una bolla luccicante ed accogliente che però non potrà tenere lontana la minaccia per sempre. Gli interpreti principali (oltre a Sarah Polley, i più famosi sono Jack Weber, Ving Rhames e Meki Phifer) fanno il loro mestiere senza infamia né lode, ben integrati, anche nelle svolte ironiche, nel nucleo omogeneo di caratteri “tipici” di questo moderno film d’assedio, fino alle svolte finali del loro destino, nascosto (in stile mockumentary) tra i titoli di coda.  

 

 

 

 

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