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The Butterfly Effect

Regia di Eric Bress, J. Mackye Gruber vedi scheda film

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Davide Schiavoni

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La recensione su The Butterfly Effect

di Davide Schiavoni
6 stelle

Per quasi la sua intera durata il film si svolge incentrandosi su profondissime speculazioni filosofiche e teologiche; ma queste vengono poi sciaguratamente azzerate da un incongruo quanto inaspettato finale risolutore. Tutti i tasselli del mosaico, però, si ricompongono nel momento in cui si visiona uno degli “alternate ending” contenuti negli extra del dvd. L’opzione scartata non fa che confermare, anzi potenziare la portata delle riflessioni sulle quali Eric Bress e J.Mackye Gruber avevano imbastito la struttura narrativa della pellicola, al punto che le presunte pecche e lacune nella sceneggiatura diventano trascurabilissime. In tal senso, l’epilogo ultra-pessimistico (http://www.youtube.com/watch?v=OqKWxAmOLaM) pone il suggello conclusivo sul calvario del protagonista, ergendolo a paradigma della condizione umana irrimediabilmente segnata dal male e dall’assenza di giustizia (divina).
Il primo dato che salta agli occhi riguarda il “dono” di cui dispone Evan Treborn: questi, sfruttando il proprio potere di tornare indietro nel tempo, viaggio dopo viaggio sperimenta e verifica come la natura d’ogni soggetto muti (in massima parte) a seconda delle esperienze che si sono accumulate nel corso della vita. Tale significativo stato delle cose evidenzia l’intrinseca illegittimità, sotto il profilo etico, del diritto di giudicare aprioristicamente una persona, essendo il nostro comportamento la risultante d’una fitta sequela di eventi-variabili che esautorano la capacità volitiva autonoma e, conseguentemente, condizionano l’agire. Ma di là dagli aspetti “deterministici” che connotano ogni esistenza, Bress e Gruber vanno ancora più a fondo, gettando una luce s’un punto focale: e cioè quello dell’impossibilità di trovare una soluzione al dolore che comporta il vivere. Il male è connaturato, consunstanziale alla storia, per cui non v'è possibilità d’estinguerlo, come dimostrano i ripetuti tentativi drammaticamente provati dal personaggio centrale della vicenda. In altre parole, e secondo il fulcro tematico del film, qualsiasi azione può soltanto -per ipotesi- incidere in maniera relativa sul decorso degli avvenimenti, modificandoli pure, ma senza possibilità di rimediare definitivamente ai fatti infausti. La negatività rimane, persiste come il vento che soffia in direzioni di volta in volta differenti; essa non perisce, bensì si limita a spostarsi da situazione a situazione, da soggetto a soggetto: non si crea né si distrugge, assume solo forme diverse. E l’unico modo per non subirla e per darle scacco sembrerebbe essere –con buona pace d’Ingmar Bergman- “non giocare la partita della vita”: paradossalmente il non esistere come risoluzione dell’esistere ("Non nascere: questa è la parola migliore. Oppure quando si è nati tornare al più presto là donde si è venuti". Edipo a Colono).
 

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