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Mr. Vendetta - Sympathy for Mr. Vengeance

Regia di Chan-wook Park vedi scheda film

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La recensione su Mr. Vendetta - Sympathy for Mr. Vengeance

di AIDES
6 stelle

Non originalissimo nel ‘tema’ affrontato (la vendetta – al cubo) e nella rappresentazione in cui è collocato (violenza esplicita, freddezza e malattia postmoderna), il film denota tuttavia, grazie anche alla precisa gestione della tensione e nella narrazione frammentata e implicita dell’ellissi, del fuoricampo e del raccordo atipico, un’impronta stilistica rilevante ed efficace nella scrittura del racconto, tanto da riuscire nel complesso a conferire forza e credibilità alla visione laida, spietata, malsana della realtà dis-umana trattata. Dunque l’‘ostentazione’ della violenza non rimane fine a se stessa, ma acquisisce forza di verità (pur non risolvendosi pienamente nella sua ambiguità, come si dirà dopo): Park eccede perfidamente (e inutilmente) nell’abominio del dettaglio (le autopsie), ma asseconda il dato moderno del congelamento dei sentimenti e dell’umanità raffigurando esseri sulla soglia del vuoto e della nullità, della mediocrità irreversibile, del grottesco pietoso, della tragicità (che è quella della non comunicazione e del tradimento dell’innocenza rimasta), delineando un quadro nichilistico che sfrutta l’imputtanimento sociale per rimandare alla regressione, o meglio, alla circolarità quasi atemporale della sostanziale perversione umana. L’impronta hitchcockiana di Park si annida soprattutto nei rimandi allo specchio e alla spirale del male e del destino, che riflettono  e ricamano l’impietosa dualità e scissione delle situazioni e degli accadimenti (ad es. il luogo d’infanzia delle primissime scene che torna e si rivela luogo di morte nella truce progressione della vicenda). Al contempo, conflittuali appaiono i momenti stranianti in cui l’amarezza e il riso si sovrappongono in quello che definirei un atroce ‘dramma della stupidità’ (in cui ‘stupidità’ è la forma attuale, deteriore e sconsolata di un termine nobile come comico), non solo ravvisabile in molte sequenze (l’annegamento della bambina) o dettagli (Ryu perde i reni, alla fine viene preso a calci proprio nel fianco), ma in tutta la sceneggiatura (Ryu non è né pazzo né idiota, è ‘segnato’, da ciò scaturisce la grottesca e terribile sequela di fattacci) e nel racconto (ad es. le vendette si incrociano come le telefonate in un montaggio che già in alcune scene rovesciava con gli specchi le simmetrie di Ryu e di Yeong-mi impegnati in strambi dialoghi, e che sembra voler giocare con lo spettatore mentre compone ogni sorta di nemesi possibile). Dramma della stupidità che rimanda a sua volta soprattutto a quel Kitano che a maggior ragione è da annoverare tra le probabili influenze di Park. Tutto ciò contribuisce a dar senso all’estremismo di questo film: alcune scene di violenza vera, del resto, come la tortura col voltaggio o l’uccisione finale, in cui carnefici fissano la vittima negli occhi in momenti interminabili di sconcerto e agonia, non lasciano spazio ad equivoci, a nessun sospetto di pseudofumettismo tarantiniano. Tuttavia, nel complesso, i legami o i debiti più o meno coscienti nei confronti dell’attuale immaginario (popolare, mediatico e cinematografico/di genere) della violenza e del ‘thriller’, da un lato sono ascrivibili al discorso di chi, come Park, si ritiene un regista “professionale” e di mestiere (parlare di ‘popolare’ per il cinema fa sorridere, non tutto del popolare è però cancellato ogni qualvolta un film del circuito riesca a navigare con dignità nei territori non tanto della qualità, ma di una non sospetta onestà, come in questo caso, uno di quelli cioè in cui urgenze e contenuti non sono piegati all’industria, ma è quest’ultima funzionale al discorso del regista, e in cui la visione non asseconda la voglia di riposo dello spettatore contemporaneo, ma gli richiede la massima veglia e attenzione), dall’altro, rischiano di non spingere il film molto al di là della constatazione della sua qualità. Il limite è che tutto ciò, nonostante tutto, anzi proprio malgrado certi pregi, non rappresenti che una dialettica illusoria (quella tra ‘autorialità’ e convenienza, violenza vera e violenza compiaciuta ec..) e che in realtà Sympathy for Mr.Vengeance non riesca a superare, a essere pienamente al di sopra di quella retorica decadente che ingloba gran parte dell’espressione di massa in epoca contemporanea (sospesa tra gioco, calcolo, perversione, sensazionalismo, nichilismo). Qui non c’è il ‘cinematografismo’ dei Coen ad es. (né tantomeno l’autorialità da salotto, né la puerilità hollywoodiana), c’è la stessa viva artigianalità che ha però una più forte cognizione della negatività e della disperazione, ma che pur piegando i canoni estetici abituali rischia di imprigionare tali scottanti elementi nella loro mera (reificata) rappresentazione. E’anche per questo che quel ‘dramma della stupidità’ (che vuole comunque dire della tragicità) non è ancora, come forse già è in Kitano, pienamente tragedia della stupidità. E al cinema, e non solo, la tragedia c’è solo se la rappresentazione riesce davvero, in qualche modo, a trasfigurarsi (come nel seminale Vertigo ad es.). C’è un' ulteriore possibilità: che quegli specchi non vogliano alludere proprio a questo? Cioè là dove i due personaggi non comunicano se non tramite terzi (un linguaggio di ‘ripiego’ e l’immagine speculare)? Al mero riflesso quindi, di qualcosa che ci riguarda ma che è altro da noi (come l’immagine dall’altra parte), quasi a voler dire che il cinema è (disillusa) illusione? ‘Rappresentazione’ appunto (come quella delle foto e dei quadri)? Un cinema cosciente dunque (come quando nell’episodio dei trafficanti d’organi mostra più volte e palesemente delle ombre che attraversano un riquadro, prendendone quasi le distanze), ma che forse ha già deciso di fermarsi qui, nell’accettazione di un ruolo e una funzione a metà tra l’ordinario e lo straordinario.

***½

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