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Twentynine Palms

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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David Cronenberg

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La recensione su Twentynine Palms

di David Cronenberg
8 stelle

David è un fotoreporter che cerca delle location fotografiche per una rivista, Katia è la sua fidanzata, disoccupata, che lo segue nelle ricerche in un arido deserto californiano nella zona di “Twentynine Palms”, cittadina anonima, caratterizzata dalle 29 palme che la contornano e dai numerosi motel e fast-food di cui è composta. I due girano le sperdute aree del crespato e isolato deserto, parlando senza mai capirsi veramente, facendo l’amore senza mai capirsi veramente e tollerando senza mai capirsi veramente, fino a quando entrambi vivranno una stessa situazione ma una diversa condizione, per la prima volta capendosi e capendo veramente.
Già quando nel 1999, David Cronenberg, presidente della giuria al 52° Festival di Cannes, assegnò il Premio della Giuria a “L’umanità”, secondo film del quarantaseienne Bruno Dumont, si erano colte le grandi capacità di uno dei più profondi, carnosi, sfacciati e provocanti registi di sempre. “29 Palms” è la conferma, che al suo terzo film, il regista francese sa fare grandi cose e sa soprattutto motivare le sue scelte stilistiche, criticatissime al 60° Festival di Venezia dove è stato presentato il suo film e dove ha tenuto una conferenza stampa, come moventi di un cinema fatto esclusivamente con lo stomaco, mai pensato e mai realizzato, un cinema indotto da una carica vitale ingiudicabile, un cinema sprigionato della sua morale e anti-morale e lasciato alla lasciva presenza del “sé”. La scelta magistrale di uno stilema scandito da un tempo realmente reale, dai lassi di durata estesissimi e perciò reali, da una scelta inguaribile di un amplesso infecondo percorso e ripercorso da un tempo eterno ed etereo, da un rapporto malato svoltosi nella totale mancanza di legami affettivi e non, rivoltosi solamente ad una percezione distesa di un corpo fossilizzato su un masso grigio-scuro, a comporre un involucro brumoso e protetto da un mondo volubile e confuso, mostruoso e inquinato. La macchina da presa del regista francese, segue, segugio di un tempo trascorrente, due corpi incomunicabili, carne ed ossa, confusi nella lamiera rossa di una jeep infangata del piacere accumulato, sinonimi d’istrione di un tempo volgare nel volgare, violento nel violento, incomunicabile nel comunicabile. La fotografia di Georges Lechaptois è magnifica, come lo sono anche le musiche e gli attori, stretti in una morsa infinita di una fine già scritta, in un opera d’arte spiazzante di auto-modernismo che sfocia in una fine incostantemente bella, di una rivolta horror, stomaco e violenza, inafferrabile ed irraggiungibile nella traslazione temporale di un corpo martoriato e devastato dai suoi stessi organi ri-produttivi di una vita ormai certa, la morte iperviolenta. Un rimorchio, porta su la scritta scrostata “29 PALMS”, forse proprio quello è il container dell’incomunicabilità, dove noi tutti passiamo per non farci scoprire esseri violenti, senza immagini né desideri conoscibili.

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