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Buongiorno, notte

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Buongiorno, notte

di FilmTv Rivista
8 stelle

Un film fatto di volti riquadrati dall’ombra scura di uno spioncino, di occhi che parlano più di quanto non vorrebbero, di mani, caviglie, ombre. Un film fatto di fantasmi: il fantasma di un’ideologia che si è persa in un’autoreferenzialità fuori dalla Storia, il fantasma di uno statista (ma anche di un vecchio, di un nonno) che è stato trasformato suo malgrado in un simbolo, il fantasma di una giovinezza perduta e di un ideale che ha rischiato di affondare nei totem. Come saremmo noi, oggi, se Aldo Moro il 9 maggio del 1978, di prima mattina, se ne fosse andato via libero, respirando l’aria che gli era stata negata per 55 giorni di prigionia? Come sarebbe la notte che ci avvolge? Meno “notte”? Buongiorno, notte di Marco Bellocchio è un film sull’utopia (non solo quella bruciata dal fuoco rosso delle BR, ma anche quella ingessata dai monumenti e dalle parate di Stalin e, in fondo, con malinconia, quella impastata di nobiltà contadina di Fischia il vento, infuria la bufera), sulle sue deviazioni e sul bisogno che, nonostante queste, continuiamo ad averne. Tutto costruito sul “privato” della protagonista, la giovane brigatista che vive la schizofrenica doppia vita di impiegata e carceriera/carcerata, sulle silenziose relazioni che si intrecciano nella casa di via Fani, corpi che si appoggiano a dormire di fianco a lei nel letto, la presenza fantasmatica rinchiusa nell’anfratto nel muro, la sua voce, il gatto, i canarini, il terrore degli occhi dei vicini, Buongiorno, notte ci racconta forse molto di più sull’oggi che su quel particolare momento della nostra storia. Con le sue sfilate di politici, ripresi dai servizi televisivi dell’epoca, con i suoi cenni di televisione spazzatura (che proprio in quegli anni cominciò a rodere i nostri cervelli), e soprattutto con la sua privata ostinazione, con il suo “fuori” angosciante e minaccioso (le due sequenze al Ministero, tra scale e ascensori, che fotografano l’aria e la paura che si respiravano), descrive i germi che si sono insinuati nella nostra realtà e indica con chiarezza chi li ha seminati. Certe scene (la seduta spiritica, la corte del Papa, il pranzo nuziale in campagna) vengono dritte da L’ora di religione, nel racconto di un ieri identico a oggi, solo più attento, forse, alla memoria e alle radici, ma dove già l’unica strada di sopravvivenza era tracciata dal sogno. Moro, che si ostina ad andarsene libero nell’immaginazione di Chiara, ha la stessa espressione di Sergio Castellitto che ritrova la propria libertà nel finale di L’ora di religione. Negando patria, “famiglie” e religione, negando il ruolo in cui gli altri li costringono. Questi fantasmi hanno qualcosa da insegnarci.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 0 del 0

Autore: Emanuela Martini

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