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Crisi

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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La recensione su Crisi

di Aquilant
8 stelle

“Kris” s’ispira ad una pièce teatrale scritta da Leck Fisher, uno scribacchino danese (a detta di Bergman): “La bestia madre”, opera definita peraltro “una grandiosa insulsaggine” da Anders Dymling, direttore della Svensk Filmindustri.
“Ero fuori di me dalla felicità” afferma il regista, “Lessi la commedia e la trovai orrenda. Ma se me lo avessero chiesto avrei sicuramente tratto un film anche dalla guida del telefono. Scrissi così la sceneggiatura in quattordici notti e fu approvata.”
Non un dramma straziante, piuttosto un dramma quotidiano, dunque quasi una commedia, come afferma la voce narrante extradiegetica, ma a nostro parere più propriamente un esemplare di mélo dal fascino sfuggente, languoroso e perverso allo stesso tempo, più apparentato a tratti a future atmosfere fassbinderiane che ai percorsi visivi visionari ed alle traiettorie devianti dello sguardo di quel Bergman che abbiamo imparato da tempo ad apprezzare nel suo giusto valore, qui ancora alla ricerca di una propria efficace misura stilistica. E pur volendo tirare in ballo (im)pertinenti analogie con tematiche (melo)drammatiche sirkiane od ophulsiane, la sostanza non cambia. Ed anche se ben presto taluni saggi giovanili del dolore dell’anima, quali “Musica nel buio” e “Città portuale” non mancheranno di manifestare i primi sintomi rivelatori di demoni ed altri esseri senza nome e senza fissa dimora, dalle parti di “Kris” i fantasmi della psiche che circondano il regista fin dall’infanzia sono ancora lungi dal manifestarsi in tutta la loro veemenza, forse per pudore, per modestia o per un senso d'accortezza in previsione di un solenne (ed autentico) fiasco di pubblico.
Per il momento dunque essi restano occultati nel buio, mentre assistiamo ad un gioco torbidamente inquietante di sottili passioni celate in maniera tutt’altro che scaltra dietro maschere di premurosi sorrisi ed ostentate (ri)affermazioni d’una propria autodistruttiva alterità: voli fugaci di genio in fieri tra ingenuità ed avvedutezze contemplate a posteriori.
Ma attenzione! Lo sguardo impietoso e disincantato dell’autore è sempre lì, a portata di mano, seppure celato sotto mentite (e sardoniche) spoglie di un narratore che non lesina di spargere all’interno dei fotogrammi rivoletti assortiti di sdolcinature materne (ma scegliere fra due madri è pur sempre arduo, specie se le ragioni del cuore, in preda a subitanee ripicche, ispirano a volte la soluzione errata). Per non parlare di un caustico uso di toni grotteschi e di sedicenti fantasie lunari di finto sapore esistenzialistico che alla fine finiscono per rivelare grumi di psicosi destinati ad esplodere con particolare virulenza in una sapiente messinscena trattata con senso del drammatico e sostenuta da un montaggio che acuisce le tensioni fornendo sussulti adrenalinici a sorpresa, ed in cui per certi versi fa capolino perfino l’aspetto metateatrale tramite le sonorità fornite direttamente dai rumori di un teatro adiacente alla scena.
Ma chi si aspetta da un’opera che talvolta fornisce l’impressione di smarrire la rotta (finendo pur sempre per ricompattarsi) perlomeno il Bergman che scava impietosamente nelle pieghe dei volti messi a nudo dal compiacente occhio della macchina da presa, neppure in questo versante troverà pane per i suoi denti. Per colmo di misura l’acerba Inga Landgré, già intravista in “Ordet” ed in “Eva” di Gustaf Molander, dimostra di non valere neppure un’unghia rispetto alle varie Andersson, Thulin ed Ulmann, e chi è voglioso di intravedere precoci avvisaglie di genio resterà, ripetiamo, sicuramente deluso. Ma ben vengano, alfine, dieci, cento, mille di queste premature “Crisi” come opere prime! Il cinema tutto non mancherebbe di trarne opportuno stimolo e giovamento.

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