Regia di Spike Lee vedi scheda film
PICCOLA RIVISITAZIONE PERSONALE
Rivedendo questo film ne esco sorpresamente un po’ amareggiato perché la realtà in esso rappresentata, con il suo dolore straziante di tutta un’America ferita a morte nell'11 settembre, che si incarna nella figura di un Monty che deve andarsene in galera per spaccio e scontare una pena di sette anni, nel frattempo, è una realtà che è diventata ancora più cupa, perché non si sapeva ancora di quello che sarebbe stato dell’impantanarsi in Afghanistan, in Iraq, il terrorismo di Guantánamo, gli eccidi dell’Isis. La figura di Monty dopo tutti questi anni (pochi ma anche lunghi) mi diventa sempre più piccola, in fondo è uno spacciatore, deve meritare la pena per cui è stato condannato, e oggi come oggi ci sono realtà molto più crudeli da affrontare, e sono tanti gli amici che ti puoi perdere per strada senza tanti complimenti e per motivi ben peggiori. La sceneggiatura, pur timida dell’autore del libro David Benioff, viene riveduta dal regista Spike Lee per essere più fedele allo stesso libro, e i passaggi fondamentali, come il dialogo allo specchio di Monty (Edward Norton), il rapporto con gli amici più cari, con la sua donna, e la 25 ora in cui il sogno di Monty diventa riscatto infranto della stessa America, rimangono certo passaggi fondamentali, ma, mi tocca dirlo, non hanno più per me quella presa che mi fecero un tempo. Tanto per fare un esempio, quel vaffa…. di Monty nello specchio a tutta New York e, infine, a se stesso, oggi lo ritroviamo, in fondo, nel populismo legalizzato di tutta Europa. Paradossalmente acquistano più pregnanza le scene dei suoi cari amici, che parlano della sorte di Monty di fronte al fantasma delle torri, come se quel fantasma fosse lo stesso Monty, mentre ess, tuttavia, sono alle prese con una realtà che si trascina nel suo disorientamento. Sono queste figure, soprattutto quella incarnata dal Seymour Hoffman, a cui oggi va la mia attenzione, perché preludono a un antieroe del post-moderno che certamente oggi ha qualcosa da dire e molto di più di quanto si potesse credere nel 2001 o 2002. Monty ha soltanto il pregio di incarnare, in modo eccellente, il tramonto di un’epoca, quella degli anni Novanta e Ottanta, mentre nel 2002 sembrava la premessa di una nuova leggenda complessa, tutta americana in senso intelligente.
Ma forse sono cambiato io, forse non l’ho rivisto con l’umore gusto, o forse davvero nel mondo qualcosa di peggiore è in atto, e la disperazione di un uomo che deve entrare in carcere per quel che ha commesso non è il primo dei miei pensieri, visto in un film. Ciò non toglie nulla alla maestria della regia che ti fa girare tutta New York in lungo e in largo con le sue riprese che enfatizzano in modo emblematico e discreto la ferita ancora aperta della città e della sua umanità multietnica; non toglie nulla alla drammaticità recitativa di Norton, ma quella forza recitativa di Hoffman, forse, era ancora tutta da scoprire, perché qui l’attore dà davvero tanto: nelle sue goffaggini intrepide e amare, nei suoi pensieri rallentati ti si apre un mondo, che solo oggi, con sincero rammarico, puoi riscoprire nel suo talento.
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