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Dolls

Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film

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La recensione su Dolls

di LAMPUR
6 stelle

Argomento delicato Kitano. Come il film.

E criticherò delicatamente, spero, senza urtare  cristallerie con movenze pachidermiche ed insensibili, o la suscettibilità di innumerevoli fans.

Non voglio parlare di “critica costruttiva” ma obiettiva si.

E' il razionalismo occidentale che sfrucuglia l'haiku giapponese.

Kitano mette sul piatto tre storie d'amore infinito e noi ne smolecoliamo la poesia.

Nella prima, lui lascia la giovane innamorata per un matrimonio di convenienza. La ragazza tenta il suicidio, rimane viva ma impazzisce e perde memoria  e parola, lui, avvisato, si pente, abbandona tutto e tutti, torna da lei ed insieme vagheranno per il mondo legati da una corda che ne testimonia il destino (amore pentito). Il nostro lato razionale, quello che si sveste di poesia, che non si fa ingannare dai colori saturi, dalle lentezze studiate, dai lampioni isolati sulla neve che arabescano ombre, si chiede come campino, chi li veste, dove mangiano, chi li cura. Scarso spirito lirico certo, ma inevitabile realtà.

La seconda storia è quella di due innamorati che ogni sabato s'incontrano al parco. Lui le dice che dovrà cambiare città per trovare lavoro, quel lavoro che li renderà felici permettendogli di incontrarsi tutti i giorni e di vivere finalmente insieme. Lei lo saluta e promette che sarà ad aspettarlo là, in quel parco, su quella panchina, ogni sabato, per tutta la vita (amore tignoso). Lui se ne farà un'altra di vita, e dopo una trentina d'anni gli tornerà in mente quella promessa e tornerà al parco, trovando la sua amata, seduta ad attendere un amore che non è mai ritornato. Il nostro lato razionale si chiede cosa fa lei dalla domenica al venerdi? C'ha un'altra famiglia? Altre panchine? Vive coi suoi? Scarsa poesia certo, ma dura realtà.

La terza storia è quella di un fan sfegatato di una cantantina rockettara, che vive di poster della sua stellina, di appostamenti davanti agli alberghi ed all'uscita dai concerti, è nutrito da un suo sguardo, si bea di un sospiro, si ciba di suoi cd. Un giorno la cantante subisce un incidente, rimane verosimilmente sfigurata, si ritira dalle scene e non vuole vedere più nessuno. Men che meno i suoi fans. Il nostro è letteralmente disperato. Decide di  privarsi degli occhi, e della vista, per non turbarla e poterla avvicinare senza imbarazzarla (amore estremo). Il nostro lato razionale non si chiede più nulla. Getta la spugna. Siamo nel sogno, nel visionario, in piena iperbole,   navighiamo pura astrazione. Poesia non distillata, ma istillata. Storie estreme che parafrasano le magiche marionette giapponesi metaforizzando fin troppo la “manovrabilità” umana al cospetto della cupidigia, della noia, dell'esaltazione, dell'impotenza.  Prendere o lasciare, ci si potrebbe chiedere. Il kitaniano doc prende tutto, si adagia nell'impresa di adattare marionette, non deperibili, non irritabili, alla nostra esistenza caotica, per estirparne desideri tessendone fragile seta. Una proiezione mistica.  Il profano (io) storce parecchio il naso. Magari si gode l'artefatto, la voglia di stupire,  la fotografia laccata, l'inverosimile al servizio di questi sogni resi palpabili e rinuncia alla speranza che un giorno tutto questo possa accadere davvero se non in un lampo di pazzia. Il Kitano, per ora, resta in sospeso (come un'amante al parco...)  

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