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Due amici

Regia di Spiro Scimone, Francesco Sframeli vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Due amici

di MarioC
7 stelle

Il mondo piccolo di Spiro Scimone e Francesco Sframeli. Un'amicizia che cresce con il dolore e di dolore si alimenta. Sceneggiatura minuta e "deviante", fatta di perché, sguardi, atti, mancati e non, che precedono la fine. O forse, semplicemente, le si accompagnano da sempre.

Scimone e Sframeli sono gli esponenti di una sicilianità lunare e mai corriva, dai tratti malinconici e surreali, declinata in accenti che nel teatro hanno il proprio luogo di coltura più appropriato. Si è parlato per il duo di modelli di riferimento alti, se non altissimi (Beckett e Ionesco sopra tutti), in parte replicati nella capacità di inserire nelle vite comuni e disperate di personaggi ai margini le coordinate della nostalgia e di un dolore non urlato, ma strisciante nelle pieghe di dialoghi che vanno sempre oltre un punto focale, per disperdersi nei rivoli di insistite domande retoriche e in sguardi sul mondo di accorata dolcezza.

 

Due amici è l’unica prova cinematografica dei due attori, derivata da una piece (Nunzio) di gran successo scritta da Spiro Scimone. Un film teneramente folle e gioiosamente vitale, una piccola grande sorpresa nel panorama italiano dei primi anni 2000, ancora alla ricerca dei successi internazionali che, di lì a poco, Garrone e Sorrentino (oltre al nuovo Moretti) si sarebbero incaricati di aggiungere al carniere tricolore.

La storia non va al di là di una rappresentazione teatrale (in luoghi e fondali lividi e sporchi – il malsano ambiente di lavoro, un appartamento senza alcuna concessione al superfluo, una pescheria dove si producono loschi affari, scanditi dalla consegna di un cartoccio di pesce maleodorante-) della strana e combattuta amicizia tra due giovani uomini siciliani, trapiantati al Nord e palesemente spauriti nella ricerca della propria strada: l’uno , Nunzio, tormentato da una tosse maligna e tarato da un’ingenuità che ne fanno, sin dalla prima inquadratura, il prototipo del perdente cui non si può non voler bene; l’altro, Pino, misterioso viaggiatore al soldo di qualche criminale da strapaese. Gli incontri tra i due, inizialmente formali e scanditi dalle insistite domande di Nunzio, estrema concessione ad una semplicità di animo naif e senza ritorno, si fanno via via più teneri, di quella tenerezza di cui a volte l’amicizia virile può essere portatrice sana. Sino a che la malattia di Nunzio farà crescere, nel dolore, una piccola serie di gioie che il quotidiano, a ben affrontarlo, sa e può regalare a tutti.

 

 

E’ nell’assurdità, non dell’assunto ma del suo svolgimento, la bellezza di questo film quasi invisibile. E' in quel sentimento di sconfitta, eppure venato da un sincero ottimismo della volontà, che ti entra dentro sottilmente, in quel riconoscere nello straniamento dei personaggi la stessa paura di vivere che si aveva da bambini; è nella ricerca dell’amore a tutti i costi, sino a circondarlo di un alone di ingenua spavalderia, nella sequela di interrogativi fastidiosi che forse sono soltanto il modo dei poveri di spirito per imporre ad un mondo sordo la propria flebile voce (io ti domando, tu dovrai rispondere, anche mandandomi al diavolo). E’ nei camei veloci e palesemente azzeccati di un bel parterre di attori (Teresa Saponangelo, ragazza angelicata e dal sorriso spiazzante; Felice Andreasi vecchio “esattore” dal cuore grande e dalle convinzioni surreali; Roberto Citran spacciatore di regali per migliori approcci sentimentali; Valerio Binasco barista innamorato di un nome e di canzoni che a quel nome si legano; Gianfelice Imparato, malato ospedaliero che ambisce ad una privacy totale). E’ nella forza strana che hanno gli oggetti e le cose: una radio, un peluche, una pasta con il pecorino, un misterioso involucro di pesce, una catenina d’oro.

 

 

Musiche belle, ma dal DNA più che sospetto, di Andrea Morricone.

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