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Betty Blue

Regia di Jean-Jacques Beineix vedi scheda film

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La recensione su Betty Blue

di Lehava
4 stelle

 

Il tempo quasi sempre rende merito al valore. Decontestualizzato dalla fine degli anni Ottanta, "Betty Blue" (titolo originale "37°2 le matin" ma direi che una volta ogni tanto con la "traduzione" ci ha guadagnato) è oggi al limite estremo dell'inguardabile. Eppure allora, in piena crisi del cinema francese orfano della Nouvelle Vague ormai perduta, parve quasi un miracolo. Se non di critica, quantomeno di pubblico transalpino, in un decennio monopolizzato dall'avvento definitivo e massicco della televisione anche in Europa.

Nel 2017 il lungometraggio brilla per i propri difetti e appare invecchiato malissimo nei pochi pregi, tutti tecnici. Sola resta, notevole ma fuori contesto, la colonna sonora di Gabriel Yared.

Il soggetto è firmato Philippe Djian e tratto dall'omonimo romanzo. Di carne al fuoco ce n'è parecchia: fin troppa direi. Amore, morte, procreazione, pazzia, sesso. La sceneggiatura non regge: un po' meglio (supportata dal montaggio) nella versione breve, disastrosa nel director's cut di 185 minuti. Gli eventi sembrano accostati in maniera casuale e trasandata: manca del tutto la capacità di raccontare semplice. Si ricerca il particolare inutile tralasciando l'essenziale: aggiungendo personaggi minori, senza essere stati in grado prima di delineare i protagonisti; ammassando eventi gratuiti senza seguire lo svolgersi chiarificatore della trama principale. Non ci si preoccupa minimamente del ritmo. Più il film progredisce più ovviamente il peso delle pecche si fa insopportabile: oltretutto acutizzato da una mano pesante, registicamente parlando, sull'eccesso estetico e verbale, il melodrammone strappalacrime, l'utilizzo ripetitivo del sesso, il melenso anti-romantico, il funesto più che drammatico, l'inverosimile. Jean-Jacques Beineix sembra un bambino perso in un parco giochi di possibilità: si affanna per arraffare tutto: grottesco e tragico, umoristico e struggente, sensuale ed intellettuale. Nella foga non si capisce cosa stia facendo e dove stia andando: non lo sa neppure lui. Si ferma su qualche paesaggio senza senso, appiccica la musica (che, ribadisco, è splendida. Solo che non è in sintonia con l'immagine e ad essa non "aggiunge"), si preoccupa dei vestitini della protagonista sempre troppo ben truccata, indugia nei frontali fissi quando c'è un qualsivoglia corpo nudo per poi invece muovere la mdp in tutti gli interni senza un reale motivo (nella casetta sul mare, nella casa in città). Fa urlare troppo gli attori, oppure troppo poco (chiudendo sulle crisi di Betty con leggerezza) e scade nel ridicolo (Lindon poliziotto: che ci fai lì?) più che mai quando non contestualizza eventi e caratteri (vogliamo parlare dell'erudito protagonista che scrive romanzi chilometrici e suona il pianoforte ma che tranquillamente vive in una topaia e fa il cameriere senza nessuna analisi introspettiva e senza accenni alla storia personale?).

Insomma, un disastro.

Condito da un gusto video-clip anni Ottanta che annienta qualsiasi blando tentativo dello spettatore di entrare in sintonia con i due amanti sfortunati. Lui noioso, lei irritante. I due attori fanno quel che possono: Jean-Hugues Anglade è più composto e convincente, Beatrice Dalle, a parte la presenza fisica, dimostra grandi limiti coperti da un eccesso espressivo (troppi sorrisi, troppe voci, troppa agitazione, troppa disperazione, troppi capelli strappati). Entrambi presentano ancora atteggiamenti dilettanteschi tipici della recitazione transalpina di scarsa qualità (nella gestualità e soprattutto nel modo di usare ed abusare della parte bassa del volto, bocca soprattutto). Il doppiaggio italiano conferisce profondità alla voce maschile e lascia inalterata la leziosità sgradevole di quella femminile. La fotografia mostra tutti i segni del tempo anche a causa di scelte cromatiche estreme che oggi sono passate di moda. Il montaggio, senza infamia né lode per scelte tecniche, comunque riamalgama nella versione breve, come già detto.

 

Peccato, sul serio. Perché gli spunti erano interessanti: una passione di sangue ed umori strozzata da una vita che non riesce a nascere, la spiaggia lunga e anonima di Gruissan, il sudore e l'istinto, le note di Yared. Avrebbe potuto essere, sul serio, un ardente affresco sull'ineluttabilità dell'amore e nel contempo sulla sua insensatezza che, se fine a sé stessa, condanna alla crudele impossibilità di ogni salvezza. Ne è venuta fuori invece una sgangherata accozzaglia di luoghi comuni messi in scena da due personaggi principali che solo la disperazione accomuna: piuttosto che amore, mancanza di soluzioni alternative.

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