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Il figlio

Regia di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il figlio

di Aquilant
10 stelle

Come sempre, il cinema dei Dardenne è fatto di gesti netti ed essenziali, essenzialmente proteso in direzione di una continua focalizzazione degli atteggiamenti individuali. Coadiuvato in questo dallo sguardo di una macchina da presa costantemente ondeggiante e caparbiamente appiccicata addosso al soggetto, seguito implacabilmente nei suoi continui spostamenti tra un diluvio di piani ravvicinati che delimitando notevolmente l’orizzonte visivo concesso allo spettatore lo costringono a seguire in continuazione il narrato con gli stessi occhi del personaggio principale nei suoi convulsi ed apparentemente inconcludenti andirivieni nell’ambito di un mondo essenzialmente circoscritto nell’angusta dimensione di una falegnameria.

Di conseguenza le brusche movenze del mezzo meccanico si rivestono di una significanza particolare, quasi integrandosi alla perfezione con le relative immagini, in una specie di convergenza simbiotica basata in prevalenza sulla reiterata dinamica dei singoli gesti che arrivano ad acquisire uno spessore espressivo estremamente razionale se rapportato alle dinamiche del racconto stesso. In effetti “Il figlio” si delinea fin dalle prime battute come un aggregato di singole emozioni non necessariamente connesse tra loro, nel segno di un cinema chiaramente svincolato dai soliti (e solidi) canoni cinematografici, che prova invece a farsi carico di più libere forme di espressività pur nell’ambito tutto sommato di una progressione narrativa abbastanza lineare se vista con occhio attento ed aperto ad ogni singolo gesto, anche se apparentemente banale, laddove gli aromi, gli umori,i sapori ed i rumori della quotidianità vanno a confondersi con l’essenza stessa dei personaggi, accomunandoli, insabbiandoli ed ingolfandoli nel vivo del loro lento ma  progressivo pullulare tra i gangli di un’esistenzialità cittadina portata ai limiti della naturalizzazione.

Estremamente avara in fatto di dialoghi (che peraltro potrebbero essere riassunti in un paio di paginette), ma ricchissima di piani sequenza al limite dell'esasperazione, la pellicola nella prima mezz’ora sembra quasi voler stuzzicare la curiosità dello spettatore, per poi propinargli quasi senza preavviso un’atroce verità che dà il via ad un lento ma implacabile percorso ad ostacoli dell’anima, seminando dubbi e quesiti in profondità che ci chiamano direttamente in causa costringendoci nostro malgado ad un’immedesimazione tutt’altro che richiesta.

E se è vero che la vendetta è un piatto che va servito freddo, il lento viavai di Olivier e del suo apprendista su un percorso forzatamente accidentato diventa ad ogni momento sempre più arduo, data l’estrema riluttanza delle parole a farsi largo in un’atmosfera satura di (in)significativi silenzi, laddove il pulsare primigenio del sangue che ribolle di sdegno viene a scontrarsi con grumi di calcolato autocontrollo che premono dall’interno verso l’esterno, in una spietata radiografia dell’esistenza violentata e posta a tu per tu con gli scherzi della sorte.

 E se nell’”Enfant” lo sguardo in profondità degli autori era rivolta alla ricusazione di una paternità indesiderata, nel “Figlio”, film dal finale ancora aperto ma più che mai esplicito, il concetto di paternità acquisisce la connotazione di un doloroso ricordo che ferisce il cuore e l’anima.

E forse potrebbero essere proprio dei personaggi della forza di Olivier a salvare il mondo, né buoni né cattivi in fondo, carichi di problematiche individuali ma sempre pronti ad interrogarsi sui perché e sulle singole motivazioni, anche se la risposta è destinata a rimanere muta per sempre. O forse no, chissà…..

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