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Il mio corpo ti scalderà

Regia di Howard Hughes vedi scheda film

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La recensione su Il mio corpo ti scalderà

di spopola
6 stelle

Il film lascia trapelare un inquietante sentimento quasi di repulsivo disprezzo verso il personaggio femminile, fino a farlo diventare quasi un masochistico “oggetto” del quale si può disporre a piacimento, ed è un singolare paradosso se si considera che il film era stato concepito proprio per veicolare in positivo l’opulento seno di Jane Russell.

Come acutamente osservò in tempi remoti e lontani André Bazin, il film è in pratica l’esternazione esasperata di sotterranee, maschili gelosie (ma non troppo “virili” nella loro catalogazione oggettiva, aggiungo io) incrociate e anomale (nel senso che occultano, tentando di “disconoscerli”, ben altri “bisogni” e “tentazioni” in qualche modo avvertibili in sottotraccia ma non sufficientemente esteriorizzati data l’epoca e il contesto) per il possesso (o meglio il “dominio” e la “prevaricazione”) più che di una donna, di un cavallo (ma che nascondono interessi e “obiettivi”di natura più personalizzata e inconfessabile). La profonda misoginia di Howard Hughes (che avrebbe dovuto essere soltanto il produttore, ma che dopo solo pochissime sequenze di “girato” si assunse anche l’onere della regia subentrando a Howard Hawks in un primo tempo designato all’impresa) è tangibilmente percepibile nell’impianto narrativo che lascia trapelare un inquietante “sentimento” anomalo quasi di “repulsivo disprezzo”, verso il personaggio femminile, ne prende le distanze, come a volerlo indirettamente colpevolizzare per il “reato indotto” di eccessiva carica di eroticità che riesce ad emanare (ed è questo davvero un singolare paradosso, se si considera che il film era stato concepito proprio per “veicolare” le prorompenti doti dell’opulento seno di Jane Russell, qui al suo esordio sul grande schermo, e all’epoca in qualche modo “sentimentalmente” legata a Hughes stesso, ed elevarla così al ragno di icona sessuale universalizzata. E’ comunque proprio la peculiarità del soggetto a confinare la donna nella scomoda posizione di “bene di consumo fruibile” o poco più (persino cedibile alla bisogna, addirittura in subordine finanche al cavallo, decisamente più importante e prioritario) fino al punto di farla diventare quasi un masochistico “oggetto” del quale si può disporre a piacimento. La storia è infatti incentrata sull’ambiguo rapporto che contrappone Billy the Kid a Doc Holliday (con il terzo incomodo Garrett), più volte ripreso e ampliato in altre fondamentali pellicole sull’epopea western, che hanno tratto proprio da questi riferimenti “succulenti” stimoli autoriali particolarmente pregnanti e Rio (il personaggio affidato alla Russell) ha solo finalità di “normalizzazione” dei rapporti. Il film, iniziato nel 1940 e portato a termine solo nel 1943, fu da subito osteggiato per il puritanesimo ossessivamente imperante che considerava fortemente contraria alla morale questa vicenda di interscambio “sessuale” dell’oggetto femminile, soprattutto in virtù di alcune “innocue” sequenze, valutate all’epoca come oscenamente conturbanti, e per questo tolto dalla circolazione per l’indecenza della provocazione, per moltissimi anni. Fu poi ridistribuito in forma rivista e corretta per sfruttare l’onda lunga non ancora attutita della fama “scandalistica” che si era guadagnato (ma in una versione parzialmente “sfrondata” in ossequio alle leggi di autoregolamentazione censoria imposte dall’allora vigente codice Hays, e quindi più innocuo e meno destabilizzante del progetto di origine) solo agli inizi degli anni ‘50 (che è poi quella che circola ancora oggi nelle pochissime - direi rare per lo meno quanto l’araba fenice - apparizioni e passaggi nei circuiti e nei “recuperi” cinefili in sala o in televisione. Difficile allora giudicare oggettivamente un film come questo a causa non solo dell’edulcorata trasposizione che ci è stata tramandata e che probabilmente lo spoglia di gran parte di quella carica rivoluzionaria che intendeva avere (l’introduzione dell’erotismo nell’universo asessuato del filone western, un tema davvero insolito e anomalo per quei tempi), ma anche delle vicissitudini creative che ne hanno destabilizzato il linguaggio (il cambio della mano registica si avverte ed è pesantemente in perdita il passaggio da Hawks a Hughes; le “sostituzioni” e le modifiche riguardano anche altre fondamentali strutture portanti, compresa la fotografia, visto che solo in un secondo tempo il mitico Gregg Toland al quale è accredita l’impresa, sostituì l’operatore Lucien Ballard a cui si devono le riprese attribuite a Hawks, per altro facilmente riconoscibili e individuabili). Posso comunque dire per esperienza personale, che già all’epoca (o comunque in anni vicinissimi alla sua riedizione, visto che nel 1950 non avevo ancora l’età di accesso in sala per la visione di un film in ogni caso e sempre vietato ai minori) rimanemmo gia noi, ragazzotti di provincia in preda ai primissimi fermenti ormonali, fortemente delusi dal risultato, trovato ben al disotto delle premesse “pruriginose” che ci avevano attirato in sala pensando di riuscire a vedere chissà quali licenziosità. Vista oggi poi (e a me è successo proprio in questi giorni per una fortuita e inaspettata coincidenza di visionare il nastro di una vecchia e indecorosa registrazione ripresa non so da quale canale) questa storia ormai da educandato può sollecitare al massimo un generoso sorrisetto di sufficiente considerazione compiaciuta: è una delle pellicole più “invecchiate” e offese dall’inesorabile passaggio degli anni che mi sia stato dato di analizzare negli ultimi tempi, dove rimane poco più di una labile orma attutita degli echi della palese gelosia virile di quel triangolo esclusivamente al maschile con annesso “incomodo” di supporto, che costituisce il motore dell’azione (e maschera, alterandolo malamente, il tema sotterraneo dell’omosessualità), dove la ragazza dal seno dirompente e mastodontico (in un’epoca in cui le protesi erano di là da venire a normalizzare un desiderio di eccesso sempre esistito nel desiderio, forse proprio riconducibile alla pratica dell’allattamento materno) rappresenta semplicemente uno dei poli di una alternativa - non necessariamente contrapposta – donna/cavallo (con evidente preferenza verso il secondo soggetto), relegandola a semplice merce di scambio o, nella migliore delle ipotesi, a strumento “terapeutico” curativo in mancanza di contributi più appropriati e pertinenti (quasi una “borsa d’acqua calda umanizzata”, o ancora e meglio, una coperta elettrica ante litteram) nella scena topica che è l’immagine peculiare del film stesso e che costituì la base e il supporto necessario per avallare la traduzione del titolo (in originale The Outlaw) nel più ammiccante “Il mio corpo ti scalderà” con il preciso intento di risvegliare forti pulsioni voyeristiche nelle incanaglite platee dell’epoca, creando invero non poche false aspettative. A mio avviso insomma, un film che “sopporta” poco e male l’usura del tempo e le trasformazioni della società “liberalizzata” (per lo meno sotto questo profilo) della contemporaneità, che avrebbe forse potuto avere un impatto maggiore e più alti spunti di interesse “critico”, se fosse stato Hawks a terminare l’impresa e se la moralità censoria non avesse contribuito alla restaurazione borghese dei temi eliminando una grossissima fetta della provocazione. Rimane quindi quasi esclusivamente il valore documentario della prepotente, giunonica bellezza di Jane Russell, davvero difficilmente obliabile e ancora oggi capace di suscitare, con quella generosa scollatura e lo sguardo assassino, forti trasalimenti interiori.

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