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Mulholland Drive

Regia di David Lynch vedi scheda film

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La recensione su Mulholland Drive

di Aquilant
6 stelle

Arduo reggere i fili del discorso registico per chi non è avvezzo a seguirne le tracce giù giù, fin quasi nei remoti primordi di tali fantasticherie oniriche, perché le tematiche lynchiane in fondo restano sempre le stesse, anzi per chi sa ben vedere al di là delle apparenze non si spostano neppure di una virgola. Certo, mutano le situazioni, aumenta l’inintelligibilità dell’elaborato, si moltiplicano a dismisura i paradossi ma la chiave di lettura rimane pur sempre immutata: strutturazione su diversi livelli, mix di fantasia e realtà, redistribuzione dei ruoli e via discorrendo. Ma attenzione! Guai ad aggrapparsi ai risvolti della giacca del regista e strascinarsi dietro di lui boccheggianti nell’ipotetica ricomposizione di un puzzle che è tale soltanto in superficie. Perché bene o male, alla fine del gioco ogni rompicapo viene sempre ricomposto, anche con l’elargizione di un cospicuo tributo di sangue e sudore. Ma le strade perdute lynchiane no, nonostante il provvidenziale apporto della misteriosa scatolina blu! Esse si ostinano a seguire una direttrice ignota, persa nel buio profondo di criptici mondi sotterranei dove misteriosi omiciattoli deformi, simili a replicanti twinpeaksiani del regno della tenebra, tirano indisturbati da dietro le quinte misteriosi fili di un divenire che in fin dei conti non merita neppure tale denominazione. Questo perché nei meandri del sogno l’unica esistenza realmente provata appare la perpetua e fluida dinamicità della percezione impersonale e smaterializzata, amplificata a dismisura rispetto alla sua miserabile consorella del regno del reale, quest’ultima essendo totalmente vincolata dal canto suo alla dittatura ed alla soffocante ripetitività dell’azione cui necessariamente corrisponde una reazione perfettamente inquadrata nei gorghi di un principio di causa ed effetto da tempo immemorabile preso a modello ideale di ogni comportamento umano.
Cercare quindi di districarsi in maniera razionale dalle labirintiche insidie di “Mulholland drive” sarebbe come ostinarsi a spiegare la teoria della relatività ad un neonato. Perché Lynch si ostina a seguire cocciutamente i suoi schemi mentali che differiscono nettamente dai nostri, per cui il susseguirsi di tali immagini sullo schermo, ridotte quasi a frammenti decontestualizzati dalla realtà, equivale pressappoco al ciondolante accavallarsi dei nostri flussi di (non) coscienza messi alla prova in uno stato di dormiveglia passivo.
Meglio abbandonarsi allora, in mancanza d’altro, alla suggestiva visionarietà delle immagini, a quell’alternanza tra claustrofobiche sequenze intinte nel nero cupo della notte e sprazzi di vivida luce irradiante che rivestono di gioia una quasi beatifica Naomi Watts al suo ingresso in una Hollywood ultraterrena, sfavillante di una luminosità che ricorda molto da vicino quella dell’entrata in scena di Sandy Williams alias Laura Dern in “Velluto blu”, a parziale conferma del nostro assunto di partenza.
E mentre in una configurazione costruita spesso in soggettiva Lynch costringe lo spettatore a vedere con gli occhi dei suoi personaggi, i movimenti della macchina da presa si susseguono lenti, suadenti, calcolati, riecheggianti un reiterato e fastidioso deja vu, insinuandosi nei più remoti angoli delle stanze, sostituendosi allo sguardo del soggetto principale. Ma è come se queste arcane stanze si aprissero vanamente sulle profondità del nostro inconscio a guisa di una serie di scatole cinesi che mirano inutilmente a mettere a nudo le nostre tentazioni maggiormente rimosse. Perché nessuno sa alla fine dove finisce la realtà e comincia il sogno anche se tutti sappiamo, purtroppo, dove finisce il sogno e comincia la realtà.

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