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Il Signore degli Anelli. La compagnia dell'Anello

Regia di Peter Jackson vedi scheda film

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La recensione su Il Signore degli Anelli. La compagnia dell'Anello

di FilmTv Rivista
8 stelle

Un’impresa titanica, adattare i tre libri di “Il Signore degli Anelli” di Tolkien senza perderne la ricchezza narrativa e senza contemporaneamente trasformarlo in una favoletta o in un trattato di mitologia celtica. Cioè conservandone il cuore, la passione, l’avventura, l’orrore, l’onore, il debordante senso del fantastico. Ma Peter Jackson, almeno da quanto appare dal primo film della trilogia (“La Compagnia dell’Anello”), ce l’ha fatta, ha vinto la scommessa contro la quale si era infranta anche l’abilità di un animatore come Ralph Bakshi, nel ’78 con la sua versione dell’intera trilogia. Dove i disegni di Bakshi (che rielaborava scene e personaggi prima ripresi dal vivo) perdevano mistero, l’immaginazione di Jackson resuscita sogni e incubi sepolti nelle memorie infantili e dà loro carne e brividi: i Cavalieri Neri servitori dell’Anello con le loro ombre minacciose e le loro grida raggelanti, gli orchetti sanguinari, bavosi, ghignanti e la loro “clonazione” più terribile, gli Uruhkai di Saruman, i grandi Maghi che trattengono a stento i loro poteri o li lasciano esplodere in tutta la loro furia, i Troll, i demoni incontrollabili che risalgono dalle viscere della terra, il Grande Occhio senza palpebra che spia la Compagnia e ordina all’Anello di ritornare da lui. E magnifici reami sotterranei che si sono trasformati in città dei morti, ponti sospesi, abissi, valli e boschi popolati di Elfi, fate dai poteri occulti che non hanno perso l’anima delle streghe. Gli spettatori sono come gli Hobbit che non amano allontanarsi dalla Contea (quanto c’è di più vicino a un villaggio immerso nell’ordinata campagna inglese) e all’improvviso vedono materializzarsi gli esseri inquietanti e misteriosi sepolti nelle antiche leggende. “Il Signore degli Anelli” ridà alla fantasia cinematografica tutto il respiro che l’abuso degli effetti speciali pareva averle tolto. Questi effetti speciali (ovviamente ci sono, quasi in ogni inquadratura) non si vedono, o almeno non abusano della perfezione raggiunta, ma paiono ricercare un legame istintivo con l’ingenuità degli effetti di un tempo. Almeno in due scene (la battaglia sotterranea contro il Troll e l’apparizione delle due gigantesche statue dei re degli uomini), Jackson rimanda direttamente a Ray Harryhausen e alle sue invenzioni entusiasmanti; e altrove, spesso sotterraneamente, ricorda le follie e le magie di fantasie “primordiali” come “Il ladro di Bagdad” di Powell. Jackson restituisce alla fiaba i suoi archetipi: un Male insinuante capace di corrodere tutto e un Bene difficile da conquistare e conservare, re sconfitti, uomini combattuti e piccoli uomini (mezzuomini) semplici cui viene affidata la salvezza del mondo, un’impresa e i suoi nemici, la voglia di tornare a casa e quella, costante, di andare avanti. E più avanti ci sarà anche la storia dell’amore impossibile tra una principessa degli Elfi e un re degli Uomini (e l’incontro tra Arwen e Aragorn è l’unica sostanziale deviazione che Jackson si concede dalla fedeltà narrativa a Tolkien), e molte più battaglie, avventure, incontri con esseri dimenticati. Rigoroso sul piano dell’invenzione visiva (i preraffaelliti, con il loro impasto gotico-romantico, la fanno da padroni, tra gli Elfi ma non solo), “Il Signore degli Anelli” ci ridà il cinema come immersione magica, come sogno di un mondo dove una compagnia di disgraziati guidata da un nanerottolo e da due straccioni (e assurdamente “multietnica”: quattro Hobbit, un vecchio Mago, due uomini, un Nano e un Elfo) riesce a liberare il mondo dall’Anello del potere che corrompe. È la trilogia dell’Impero del nuovo millennio, più cupa e “millenaristica”, come il nuovo millennio esige.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 4 del 2001

Autore: Emanuela Martini

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