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L'uomo che non c'era

Regia di Joel Coen vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'uomo che non c'era

di ed wood
8 stelle

Considerata una delle opere più raffinate dei Coen, questo film costituisce effettivamente uno dei loro esiti più suggestivi. Forse potrebbe anche essere considerato il risultato più puro ed esemplare di quella corrente "post-noir" che ha attraversato il cinema USA degli ultimi 30 anni. Diversi registi hanno fatto i conti con l'eredità ingombrante ed affascinante del cinema "nero" della Hollywood che fu, ma forse nessuno come i Coen ha saputo coglierne lo spirito più profondo, beffardo e fatalista, rielaborandone i codici estetici e (a)morali per adattarli al mood apatico di fine secolo. Se negli anni 40 e 50 il noir esprimeva le nevrosi di una nazione reduce dal New Deal ma prossima a veder sgretolarsi le proprie certezze e ad affrontare mutamenti epocali, a cavallo fra il secondo e il terzo millennio il post-noir si fa invece interprete di una cosmica rassegnazione ad una sconfitta esistenziale percepita come ineluttabile. Se il noir classico decretava la crisi dell'eroe tradizionale e la sua trasformazione in cinico anti-eroe, quello coen-iano priva questa figura non solo dei suoi residui (dis)valori ma anche del suo oscuro fascino. Ed Crane, "homo coenianus" fatto e finito, forse fin troppo retorico nella personificazione del grottesco "loser" (lo sguardo abulico e la sigaretta sempre in bocca), è una figura tragicomica così algida da tenere lontano lo spettatore tanto dalla irrisione quanto dalla pietà. Ed Crane è il simbolo stesso del cinema della negazione professato dai Coen. I fratelli gestiscono un copione complesso, di chandleriana consistenza e forse l'eccesso di letteratura appesantisce un po' la desolata prosa delle immagini. Del resto, se il glaciale bianco e nero della fotografia, associato allo humour surreale, potrebbe avvicinare questo film a certo Jarmusch, la differenza balza subito all'orecchio contrapponendo la laconicità dell'autore di "Daunbailò" con la loquacità dell'umanità coen-iana. Questa aderenza ad una prospettiva letteraria avrebbe poi inibito anche potenziali capolavori assoluti come "Non è un paese per vecchi". C'è da dire però che questa proverbiale freddezza analitica, al netto di alcuni evitabili contorsionismi del plot e di certi personaggi non troppo convincenti (la vedova "complottista", i parenti italo-americani, e in parte anche la giovane pianista), giova questa volta alla resa filmica del processo di una sconfitta annunciata: sin dalle prime inquadrature e dalle prime parole, si può intuire come andranno a finire le cose. La meticolosa "arte nonsense" dei Coen fa il resto. Una vita da derelitto; l'ambizione a cambiare le cose che scatena una irreversibile concatenazione di eventi avversi; la morte "ridicola". Evidentemente, il "principio di indeterminazione" di Heisenberg (così caro ai Coen) impedisce di comprendere le dinamiche della realtà, ma non permette che di tale caos ci si possa servire per cambiare il proprio destino. La beffa nella beffa (nonchè scommessa filosofica riuscita da parte degli autori) consiste proprio in questo: conciliare il suddetto principio con le regole del più deterministico dei generi, il noir appunto. Fra le cose più riuscite, il personaggio del'imprenditore cialtrone e soprattutto l'avvocato egocentrico; la scena migliore resta forse quella in cui quest'ultimo espone la sua teoria accecato dalla luce che entra dalla finestra di una cella. Memorabile anche la geniale "near death experience" dopo l'incidente di Ed, che attesta la sostanziale equivalenza fra vita e morte.

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