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La dolce vita

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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La recensione su La dolce vita

di lamettrie
7 stelle

Un film bello, ma decisamente molto sopravvalutato.

Tra le scene più riuscite ricorderei quelle con il padre: autentiche (non è un caso, il padre è romagnolo come Fellini: ed è l’unico che chiaramente non fa parte del caravanserraglio delle apparenze che nel film vengono giustamente criticate).

L’obiettivo del film è proprio questo, come è noto: mostrare l’infelicità in cui necessariamente si finisce se si vive, in modo coerente, da occidentali, ovvero da capitalisti, cioè se si vuole essere al top a tutti i costi. Oggetto di critica non è solo il mondo del cinema e dello spettacolo in generale, perché qui ad essere criticati sono in tanti, i quali hanno questo come comune denominatore: l’essere molto ricchi (infatti tanti dei personaggi sono classici esponenti dell’alta borghesia); non vengono certo criticati solo degli intellettuali frustrati, tutt’altro (anche se il protagonista rientra certo in tale categoria, pur non certo impoverita!, così come il suo amico Steiner e altri).

Inoltre, sebbene su un piano cui nel complesso viene conferita minore importanza, il film giustamente critica la credulità popolare, quella cioè qui alimentata a piene mani dal cattolicesimo. Nel mostrare le aberrazioni tanto di chi si crede elite, quanto di chi non può che essere definito popolino, il film ha degli indiscutibili meriti: Fellini ce le accomuna, mostrando così che nemmeno le sedicenti elite hanno motivo reale per ritenersi tali.

Veniamo però ai punti dolenti: tra questi, innanzitutto la giustapposizione delle varie parti, spesso ai limiti del casuale. Sembrano messe assieme delle parti che in realtà non hanno continuità (tranne le parti sull’alta società), come se il regista avesse messo assieme tutto quello che in quel caso gli veniva in mente. La bellona svedese, e le parti sulla ignoranza del popolo cattolico, nell’insieme sembrano buttate lì, anche se conservano il loro interesse se prese a sé stanti. Poi c’è quel pessimismo di fondo atroce, e assolutizzante: uno, in questo caso il regista con i suoi sceneggiatori, può avere tutte le sue ragioni per far di tutto per mostrare gli aspetti negativi dell’umanità; ma manca la ricognizione di aspetti positivi, che pure si possono trovare nella realtà, e anche nel film ce ne sarebbero i presupposti. Infatti la ragazzina che serve ai tavoli sembra rappresentare qualcosa di meno squallido di ciò che appare nel resto del film; eppure volutamente essa mostra timidissimi segnali neppure percepiti. Sul pessimismo nero di un autore non si può certo sindacare, ognuno mette in evidenza ciò che gli interessa; ma sulla resa di fondo si può discordare, proprio in particolare sul tentativo di non voler far emergere niente di migliore.

Certo, il film, per quanto lunghissimo, mostra indiscutibili pregi: mostrare la soffocante tristezza di una vita basata solo sul giudizio degli altri; e fare ciò proprio in un momento di grande, e stupidissimo, entusiasmo collettivo, come quello del cosiddetto boom economico (che in realtà era solo un obolo degli americani che non volevano farci diventare comunisti; non era certo quello che invece si voleva far apparire, ovvero il frutto normale e scontato dei meriti e delle fatiche di tanti imprenditori, che si distinguevano dagli altri perché lavoravano di più, anche se ciò era del tutto indipendente da ogni richiamo proveniente dall’etica). E in tal senso una segnalazione la merita l’uomo di cultura, come si è già detto: nell’industria dei mass media è tanto più facile trovare uno stipendio, quanto più è poi difficile restare indipendenti dai condizionamenti del mercato, che è gestito da persone che hanno una versione esclusivamente propagandistica della realtà, assolutamente squallida (quella che del resto serve loro per ottenere anche il controllo sulla politica: a loro non frega ovviamente niente né della cultura né tantomeno dell’etica; ma interessa solo crearsi l’esercito di servi intellettuali che permettano loro di creare il consenso, basato su consapevoli menzogne, che sia in grado di far loro mantenere il potere economico e quindi quello politico, che così spesso è derivato solo dal potere economico, purtroppo). E l’intellettuale si torva di fronte a un bivio: o fare schifo a se stesso, ai propri cari e ai propri amici, vendendosi per soldi a tutto quello che sinora ha detto di voler combattere; oppure continuare a essere serio e coerente con sé, con la certa conseguenza però di andare incontro a notevolissime, e magari anche tragiche, traversie economiche, dato che nessuno lo paga, se vuole fare un lavoro culturale serio (lo pagherebbe ben di più solo se fosse un intellettuale leccapiedi, che lavora per far apparire interessante qualcosa che in realtà è schifo o, nel miglior del casi, è del tutto inutile rispetto a molte altre cose).

Per essere del ’60, per questi motivi al film va riconosciuta una notevole modernità: che è ancora attuale (purtroppo lo è: infatti la critica mostra solo delle schifezze, che però non sono affatto tramontate, anzi! Allora erano agli albori, ora quei mali si sono irrobustiti in modo impressionante).

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