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La dolce vita

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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La recensione su La dolce vita

di spopola
10 stelle

Fellini ci propone un quadro epocale davvero imprescindibile che racconta magistralmente la crisi del suo tempo (o più esattamente, ne descrive il collasso). Mosso, colorito e appassionate, è un vero e proprio viaggio nel disgustante degrado di una morale in disfacimento che incide in profondità proprio per l’acutezza dell’analisi che offre.

Con “La dolce vita” Fellini propone un quadro epocale davvero imprescindibile che racconta come meglio non sarebbe possibile, la crisi del suo tempo (o più esattamente, ne descrive il collasso). Mosso, colorito ampio e appassionate, è un vero e proprio viaggio nel disgustante degrado di una morale in disfacimento. Universalizza infatti la caoticità un po’ anodina di Roma “caput mundi” facendone lo specchio agghiacciante nel quale riflettere e “interpretare” una nazione e i sui “vizi” pubblici e privati, proprio perchè stigmatizza l’ipocrisia e la “superficialità del malessere”, tutti elementi che mette alla gogna (senza farne un pamphlet declamatorio) con quel suo fare sornione e disincantato che riesce ad incidere in profondità proprio per l’acutezza dell’analisi che ne offre. E’ un affresco davvero grandioso e plasticamente esemplare, rigoglioso di invenzioni, denso di emozioni, impegnativo e suggestivo come pochi altri, disordinato e magniloquente al tempo stesso. Fellini infatti non si sofferma soltanto a osservare e a descrivere lo stato “precario” dell’aristocrazia in declino e quello - non meno rivelatore - dei tempi “bui” che stiamo ancora attraversando (pur essendo degli anni ’60, il discorso è straordinariamente attuale), due elementi prioritari che emergono con vigore da molti episodi, oltre che dalla straordinaria “esemplificazione” anche visiva “della notte del falso miracolo” (che, prendendo proprio le mosse nelle sequenze iniziali da quel Cristo “lavoratore” che sorvola la città elevato in alto a scrutare la capitale della “religiosità papesca” dall’elicottero che lo trasporta, sembra così concludere magnificamente e senza appello, la posizione “critica” che intende esprimere verso una situazione concreta di “disagio” che è poi la scoperta demistificazione di un magistero ormai svilito, di una funzione sociale – quella appunto religiosa - che ha perso vitalità e senso, mostrata attraverso il disastroso incedere quasi naufragante della sua irreversibile decadenza, nonostante la virulenza di “certi colpi di coda” che stanno attraversando la contemporaneità dei nostri giorni). Il film infatti spazia ( e si concretizza) anche molto oltre, ha il coraggio di “osare” persino con un tono un po’ provocatore quando tocca la degradazione su cui poggia (e della quale si alimenta) il mito della donna-sesso e della fenomenologia “divistica” che è anche religiosa (due fenomeni di isterismo collettivo, quelli del miracolo e del divismo, che hanno davvero molti punti in comune). Insieme ad essi, Fellini descrive però molti altri elementi caratterizzanti della nostra società: il mondo dei rotocalchi e quello del giornalismo in genere (ci fa persino percepire l’inizio precognitivo della “deriva” odierna) che, come affermava Corrado Alvaro, non concede più agli scrittori (se era così negli anni ’60, figuriamoci adesso!!) di esprimere quella pur minima parte di se stessi ; il crollo (la deriva) delle illusioni che è proprio ciò che porta, da una parte Steiner al suicidio fisico oltre che a negare ai suoi figli l’ipotesi di un futuro che lui ritiene essere terrorizzante, dall’altra Marcello, le cui ambizioni ormai frustrate erano quelle di romanziere, al suicidio morale, nel ruolo arrendevole di “sfruttato prostituito” della stampa di consumo; e non ultimo, lo squallore dei salotti letterari, persino di certi ambienti artistici. La disperazione più grave che possa impadronirsi dell’anima di una società – sembra suggerire la pellicola – è il dubbio che vivere rettamente sia inutile (e mai intuizione fu più profetica, visto come siamo ridotti adesso), ed è l’amara riflessione che ne emerge prioritaria. Relativamente alla “religiosità” - che è e rimane un punto centrale del film -, non possiamo certo dire comunque che Fellini sia stato un “credente” ortodosso, eppure la lettura dell’opera non può prescindere dalla stagnazione del pensiero dentro l’idea di un cattolicesimo conformisticamente imperante che condiziona politicamente anche “gli usi e i costumi” ieri come oggi: in questo senso potremo dire che la sua analitica disamina “comportamentale” disegna inequivocabilmente la natura contraddittoria di molti cattolici di allora (che non è dissimile dall’oggi, ovviamente aggiornata ai tempi) nel beghinismo (o perbenismo di facciata che dir si voglia) di quei praticanti un po’ molesti che non temono il peccato, ma che anzi hanno per esso una predisposizione morbosa, aperti come sono alle nuove suggestioni del peccato stesso (tanto c’è poi l’assoluzione in virtù di un sacramento – quello della confessione, appunto – che riesce sempre a “rimettere le cose a posto”). Passando all’aspetto stilistico e formale, all’apparenza “La dolce vita” sembra non presentare elementi di novità, eppure è a suo modo straordinariamente rivoluzionaria nel suo incedere. Il racconto delle storie che si intersecano ha un taglio quasi “documentaristico” (ma con l’afflato della poesia che ne trasfigura il senso): quello di Fellini potrebbe essere (ma solo soffermandoci in superficie) un semplice “giornale filmato” , o meglio “un rotocalco realizzato con la pellicola”, ma è semplicemente la materia a risultare tale, perché Fellini, nell’esporla, ha il pregio di trasformarla in epica. Potremmo definirlo allora “diario” corale e “intimo” al tempo stesso, ricco di ironia e dileggio, sentimento e cinismo, simpatia e disprezzo. Il “diario rappresentazione” del mondo culturalmente depresso di un certo cinema insomma, della volgarità dei ricchi, dell’assurdità blasonata e decrepita dell’aristocrazia, della mediocrità borghese, dell’incalzare rozzo e sempre più straripante dei mass media, delle pause del pensiero e della scomparsa del sentimento (l’amore): tutto confluisce nel racconto della visione disincantata di uno sfacelo morale all’insegna di un altro sfacelo ancor più definitivo e devastante che è poi quello sociale, e assume per questo il peso dell’ammissione pubblica di un degrado senza speranza né riscatto. Non ci sono eroi né personaggi “eccezionali” da mostrare, questa volta, perché non ne esistono davvero ne “La dolce vita”, se non nel labile “positivismo” di un inutile miraggio, quello rappresentato dallo sguardo “immacolato “ della ragazza nell’ultima, conturbante sequenza del ritrovamento del “mostro” marino sul litorale, un richiamo “angelicato” alla normalità al quale però nessuno è in grado di rispondere positivamente…, nemmeno Marcello che ha ormai abdicato definitivamente al “sistema”. Un “diario notturno” che rappresenta Roma come un bordello, una città tentacolare quasi stomachevole nella sua "opportunistica", “esclusivamente” alla mercé di corrotti e corruttibili, a suo modo sirena-puttana capace di allettare e inghiottire chiunque (e qualunque cosa) dentro il dolciastro putridume delle sue sabbie mobili. Il trionfo dell’effimero culturale, sociale e politico, insomma dentro una inarrivabile lezione di grande cinema che, nell’offrire una interpretazione di siffatta rilevanza, sottolinea ed evidenzia anche uno dei fenomeni principali della nostra società , quello dello strano amalgama (quasi indissolubile) di aspirazione religiosa ed erotica la tempo stesso che è molto di più di una “vocazione”. E allora l’amore (o meglio l’osservazione delle modalità con le quali viene messo in pratica) è indubitabilmente uno dei segni che definisce meglio di altri lo stato di una struttura sociale. Non a caso del resto l’elemento morboso che qui è fortemente amplificato, ha una parte decisiva anche nell’estetica di Kierkegard. E a Kierkegard, non so quanto “consapevolmente” , Fellini ritorna (non sono il primo a rilevare queste affinità e mi fa piacere che altri esimi commentatori anche su questo sito lo abbiano evidenziato), anche se ovviamente non si può ridurre il giudizio limitandoci al solo fattore sessuale e ai sui miti, o a certi aspetti di indolenza inerte, poiché altre e più profonde sono le ragioni, i sensi dell’odierna e più radicata corruzione: le correlazioni appunto fra chiesa “come controllo politico della società” e aristocrazia, (che dovremmo aggiornare oggi alle classi emergenti), tra le èlites "al "potere in ultima analisi, e quelle che dovremmo definire invece come le élites "del" potere, (che sono poi quelle che contano e inquinano maggiormente), come altri sono i movimenti essenziali che si percepiscono celati dietro la superficie. Stilisticamente poi, sono proprio le molteplici “figure” rappresentate a fare la differenza: rinunciando al “personaggio” (inteso come “tipicizzazione” del ruolo) alla “trama (in senso tradizionale) all’intreccio (come elemento dialettico) Fellini sceglie infatti l’impostazione della circolarità del tracciato (che è poi l’elemento che accresce il peso dell’impotenza dolorosa che si avverte). Ed è proprio questa circolarità a rendere il viaggio davvero apocalittico, unico e (forse) irripetibile in mancanza di un altro “genio” di analoga portata che possa riproproprcelo con analoga forza e pregnanza: qui (dentro il film intendo) tutto è artisticamente necessario, non ci sono cascami che potrebbero essere recisi né “esuberanze disturbanti: “La dolce vita” potrebbe durare sei ore invece di tre (oppure persino soltanto un’ora e mezzo) perchè ogni singolo episodio non è un (il) punto cruciale dell’azione, il momento indispensabile (irrinunciabile) del racconto, non rappresenta una svolta decisiva, ma è semplicemente solo un tassello intercambiabile (uno dei tanti) del mosaico, dove persino i tanti simboli presenti (la statua del Cristo all’inizio, il mostro marino dall’occhio quasi umano che fissa nell’alba di Fregene i protagonisti dell’orgia nella villa della sequenza finale) vengono elevati al rango di realtà “tangibile”. Si può dire anzi che Fellini opera in senso inverso, perché riesce invece ad elevare a simbolo (tutto in negativo) la realtà dei mostri che osserva e rappresenta, poichè come abbiamo già sottolineato, questa volta il riscatto del “miracolo” salvifico dell’innocenza non si verifica. Marcello si inginocchia dinanzi al viso pulito, agli occhi stellati di Paola, ne è attratto ma sa che è tardi: si alza e si allontana allora, non percepisce nemmeno il suono delle parole del richiamo (forse non vuole udirle). Marcello “sceglie”quindi di non ridestarsi dal torpore, ma di seguire invece i “mostri” delle nottate insonni e festose fatte di trasgressione orgiastica, mentre la risacca dei marosi copre le voci e le sommerge col confuso rimestio delle onde. Ovviamente (e fortunatamente) “La dolce vita” non è però un film politico in senso lato (né tantomeno a tesi, tutt’altro), ma solo una catena di potenti immagini ed è proprio attraverso queste immagini e una sceneggiatura sfaccettata e composita, che veicola il messaggio, utilizzando i ritmi lenti fortemente descrittivi di un andamento particolarmente attento ai dettagli, ma che ha il “coraggio” di concedersi improvvise cesure che bloccano l’evento nel suo culmine (ad esempio il modo in cui la moglie per strada apprende della morte di Steiner e dei figli) utilizzando movimenti di macchina o stacchi precisi che contribuiscono ad allontanare il pericolo del ricatto pietoso dell’emotività. Come potremo concludere allora l’analisi, sintetizzando un poco dopo aver sottolineato che è davvero un film "grandioso"? Semplicemente confermando che ci troviamo di fronte a una pellicola “senza tempo” che è l’affascinante e turpe ritratto a molte dimensioni, di un mondo che non ha più alcun punto di riferimento certo, “un viaggio nella notte, durante il sonno della ragione, che attraversa una civiltà corrotta e putrescente nella quale tutto crolla di schianto: valori autentici e falsi miti, tradizioni secolari e convinzioni nate appena ieri” (Volpi).

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