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La dolce vita

Regia di Federico Fellini vedi scheda film

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La recensione su La dolce vita

di Aquilant
8 stelle

RIDONDANTE, BAROCCO, DECADENTE, ECCESSIVO. Termini che bene si adattano alla descrizione di questo autoriale parto di una mente immaginifica che nel giro di pochi anni ha inequivocabilmente introdotto una ventata d’aria nuova nell’ambiente del cinema, rivoluzionandone i canoni e gettando le fondamenta di una nuova concezione dello sguardo mediato dagli occhi dell’anima. A partire da questa “DOLCE VITA” comincia a soffiare un’aria di rinnovamento nel trattamento della materia filmica, e non solamente in Italia; un nuovo aggettivo coniato alla svelta entra di prepotenza nel linguaggio quotidiano (FELLINIANO = “caratterizzato da toni grotteschi e surreali, suggestivi e onirici, tipici dei film di Fellini”. Come da vocabolario).
Quali limiti possono ancora essere imposti alla fantasia umana abbandonatasi a caduta libera ad un potere visionario che oltrepassa tutti i confini dell’immaginario per approdare in un territorio dove la labilità della memoria si dissolve totalmente a favore di un nuovo trattamento della realtà vista con gli occhi di un adulto in completo stato di regressione ai suoi ricordi d’infanzia? La presente opera costituisce solamente l’inizio di un catalizzante percorso immaginifico lungo la direttrice di una realtà inoggettivabile i cui punti salienti sono costituiti da “8 ½” (sommo capolavoro del cinema mondiale), “GIULIETTA DEGLI SPIRITI” e “AMARCORD” Rari comunque sono i punti deboli nella filmografia felliniana, a parte i fallimentari “CASANOVA” e “SATYRICON”, prova evidente di un velleitario sconfinamento in un territorio minato e depurato da quel flusso di memoria che grazie all’ausilio dello sceneggiatore Ennio Flaiano ha assunto la connotazione di un vero e proprio territorio franco non soggetto ad alcun tipo di vincolo schiavistico da parte del reale e da cui librarsi in arditi voli pindarici per la delizia dello spettatore sintonizzato sulla medesima lunghezza d’onda.
In questa “dolce vita” croce (dei politici dell’epoca) e delizia (dei cinefili) tutto comincia con quell’elicottero “galeotto” intento a sorvolare le rovine degli acquedotti romani ed a destare la naturale curiosità di alcune belle ragazze in costume da bagno intente ad abbronzarsi sulle soleggiate mansarde delle abitazioni. Ma cosa ci fa quella possente statua del Cristo agganciata al velivolo? Soltanto Marcello è in grado di spiegare l’arcano, o magari anche lo stesso regista, tramite un’ardita panoramica aerea su di una Piazza San Pietro brulicante di fedeli.
Sequenze nervose, concitate, approntate nei minimi particolari; atmosfere irrequiete di primi anni ’60, l’età del boom economico, della sfrenata voglia di vita, del benessere istituzionalizzato. Largo uso di lunghe focali: 75 mm., 100 mm., 150 mm., obiettivi prevalentemente da ritratto, ma qui usati essenzialmente in campi lunghi allo scopo di isolare gli sfondi ed evidenziare il soggetto principale perennemente posto al centro dell’attenzione, pedinato senza tregua in tutti i suoi concitati andirivieni con precisi movimenti di macchina a seguire e conseguente doveroso tributo da pagare alla ridotta profondità di campo ed all’esigua visione prospettica derivante da un deciso appiattimento dell’immagine, contrariamente a quanto avverrà in “8 ½”, dove il prolungato uso degli obiettivi grandangolari è giustificato in termini di esaltazione dei toni grotteschi tipici di un’atmosfera sempre in bilico tra sogno e realtà. Focali che selezionano e violentano implacabilmente i personaggi riducendo gli sfondi ad anodini contorni ottici privi di consistenza, privando le figure in primo piano di una buona dose di plasticità ed assimilandole ad entità in movimento dalle connotazioni metaforiche.
E’ assolutamente incontenibile la padronanza della scena da parte del regista, il suo modo di coordinare i concitati movimenti delle masse in preda a deliri che raggiungono livelli parossistici. “La Dolce vita” è tutta un’esaltazione della dinamica del movimento, effettuata con carrellate rapidissime ed una orchestrazione precisa onde ottenere il massimo effetto di immediatezza e di fisicità da parte di un materiale umano multiforme ed eterogeneo, diretto con mano ferma dalla bacchetta di un implacabile direttore d’orchestra intento a trarre le più impalpabili sfumature dal profilmico a sua disposizione e deciso a decretare la reviviscenza di un divismo spalleggiato da una massiccia copertura mediatica, trasformando un’attricetta di terza categoria come Anita Ekberg in una money-making star, vera e propria icona assurta ad ideale archetipo di maggiorata fisica destinata a sconvolgere i sogni degli italiani (e del dottor Antonio). Ed in effetti in tutto l’arco della sua produzione l’autore ci restituisce una ideale visione della donna che sprizza pura carnalità da tutti i pori, asservita ad una fisicità equivoca, ad una sensualità insoddisfatta intesa come provocazione fine a sé stessa, ad un tipo di femminilità irrisolta e latente in quanto a spiritualità, soffocata da un senso di compiacimento del peccato destinato a sbarrare la strada ad ulteriori aneliti di elevazione interiore. Qui siamo ancora lontani dalle figure femminili totalizzanti e mostruosamente ammalianti nella loro ostentata parvenza di prosperità, destinate a riavvolgere nelle spire del vizio gli incauti evocatori di scene oniriche della propria infanzia, ma la figura di Sylvia che in “Boccaccio ‘70” verrà elevata a grottesco simbolo di peccato e dannazione già funge da preludio a talune giunoniche presenze in “8 1/2, “Amarcord” e, dulcis in fundo, “la Città delle donne”, suo oggetto misterioso straripante di volgarità a buon mercato. “Affresco dei mali più foschi e degradanti di un certo settore della realtà contemporanea”. “Crisi senza disincanto e speranze, viaggio attraverso il disgusto”, è stato definito il film dai critici dell’epoca, ed il quadro della realtà che ci presenta è tutt’altro che esaltante, quasi una “profana commedia” costituita da una sola cantica. Indovinare quale, please.
-Spremute di passeggere emozioni sperimentate nello squallore di ambienti presi in prestito da compiacenti passeggiatrici notturne. Femmine dall’amore vischioso, aggressivo, materico in preda a sindromi possessivistiche, al cui confronto le almodovariane donne sull’orlo di una crisi di nervi appaiono immerse in una tranquilla normalità. Eserciti di paparazzi dediti a folli corse onde immortalare l’arrivo di un sogno in carne ed ossa, ovvero la prima donna del primo giorno della creazione, allo stesso tempo madre, sorella, amante, angelo, diavolo. Sequenze di bagni nella fontana di Trevi assurte a fondamentali stereotipi dell’immaginario collettivo moderno. Suoni celestiali di “Toccate e fughe in re minore” emessi da un “diavolo” sterminatore della propria progenie. Sceneggiate notturne a base di isterismi di massa attizzati da sensazionalismi con fuoco fisso su visionari “enfant prodige” stazionati presso l’albero dei miracoli e relative “iene” massmediali in agguato, sempre pronte a trarre profitto dalla buona fede della gente. Decadenti performance clownesche da far versare lacrime di commozione. Genitori gaudenti dall’amaro effetto collaterale coronarico. Situazioni a rischio di umorismo involontario con scorci di nobiltà principesche nell’atto di naufragare nel calderone di una reciproca insulsaggine. Fantasmatici esemplari di aristocrazie decadute a caccia di ipotetici fantasmi notturni in castelli diroccati risonanti di deliri frenetici provocati da sedicenti sedute spiritiche. Ed ancora paparazzi, paparazzi ovunque, come avvoltoi intenti a rigirare il coltello nella piaga della tragedia, spietati, disumanizzanti, privi del pur minimo rispetto nei confronti del dolore universale di una Medea alla rovescia. Grottesche performance di travestiti in piccolo spolvero “predestinati a non arrivare a Natale perché li ammazzano prima”. Echi di ritmi di mambo nella notte e sussulti di indumenti che cadono come gocce di noia imbibente tra fantomatiche figure allo sbando, deliri di cuscini spiumati e squallide discese nella tenebra da parte di “donne chiamate cavallo”.-
Visioni da delirio collettivo per una vicenda che non si avvale di una vera e propria trama dotata di uno svolgimento tradizionale e risulta invece costituita da singoli blocchi narrativi intesi come serie di sequenze a sé stanti che ci illustrano l’asfittico divenire di un ipercinetico mondo privo di orientamenti sulla rotta da seguire, segnato dalla tragica realtà di coscienze individuali che in preda a smarrimento girano in tondo su sé stesse, immerse in una metropoli corrotta che vede crollare attorno a sé come un castello di carte tutte le prerogative e gli ideali che la mantenevano in equilibrio, fondati su di un puro niente impietosamente smascherato dall’occhio destabilizzante della macchina da presa. Ed in un conseguente venir meno di fittizie certezze taluni rituali di individui che si ostinano a considerarsi vivi e vegeti, vittime inconsapevoli della loro sepoltura indotta dalla polvere del tempo, assumono il sapore amarognolo di un’apodittica messa in scena ad opera di redivivi zombi patetici nel loro totale sprezzo del senso del ridicolo, dediti al culto delle tre grandi evasioni del vizio, il fumo, il bere ed il letto. Ed in ogni pur minima argomentazione di tali entità cristallizzate nelle loro dorate posizioni di frequentatori dei salotti bene risalta il trasparire greve ed olezzante di quell’aria di decadenza che ammorba l’intero ambiente e lo fa risuonare di anodini intrecci di luoghi comuni montati ad incastro e di snobismi ai gusti assortiti, il tutto animato da un’aura di ristagnante putrefazione che Fellini si premura di cogliere nella sua pienezza, sempre onnipresente nelle vesti del suo alter ego Marcello, talora svagato, distante o compiacente a seconda dei casi, ma sempre pronto a porre sul piatto della bilancia il suo contributo di osservatore dallo sguardo critico e coinvolgente.
“Se mi vedessi nella mia vera statura ti accorgeresti che non sono più alto di così”, afferma Steiner, forse l’unico personaggio in grado di specchiarsi adeguatamente nella sua condizione di squallore conclamato ed a percepire in maniera destabilizzante l’adombrato effluvio della controversa realtà circostante. “E’ meglio la vita più miserabile” afferma in quel suo monologo che risuona come un desolante inno alla più cupa disperazione, “che l’esistenza protetta da una società organizzata in cui tutto sia previsto, tutto perfetto. Qualche volta di notte quest’oscurità, questo silenzio, mi pesano; è la pace che mi fa paura, la temo più di ogni altra cosa, mi sembra che sia soltanto un’apparenza e che nasconda l’inferno. Pensa a cosa vedranno i miei figli domani! Il mondo sarà meraviglioso, dicono, ma da che punto di vista se basta uno squillo di telefono ad annunciare la fine di tutto? Bisogna come vivere fuori dalle passioni, oltre i sentimenti, nell’amore che c’è nell’opera d’arte riuscita, in quell’ordine incantato. Dovremmo riuscire ad amarci tanto. A vivere fuori del tempo, distaccati.”
E non sortisce alcun esito l’occhio accusatore del mostro marino proteso a fissare implacabilmente nella sua rigida fisicità cadaverica gli orgiastici superstiti di una società destinata a dissolversi per autoestinzione, così come rimane inascoltato il richiamo della PUREZZA impersonata simbolicamente dalla ragazzina dal profilo di angioletto umbro, ultima chance concessa ad un immalinconito reduce da un viaggio nel profondo buio della notte dei sensi. Ma resta solamente il candido sorriso dell’innocenza a suggellare la fine della storia.







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