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Dillinger

Regia di John Milius vedi scheda film

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La recensione su Dillinger

di joseba
8 stelle

Cantore di un epos che si trasfonde in action, John Milius, al suo primo lungometraggio cinematografico, gira uno dei gangster movie più feroci e forsennati della storia del cinema americano fino agli anni '70. Fucili a pompa, mitragliatrici che sventagliano raffiche ad altezza uomo, pistole sfoderate a ogni piè sospinto, bombe a mano che piovono dai tetti: Dillinger sfoggia una panoplia bellica che non ha niente da invidiare a un film di guerra di Sam Fuller.

Eppure le esplosioni di violenza sono scomposte da inquadrature che le deformano espressionisticamente, distorcendole in chiave grafica (parabrezza crivellati di colpi, particolari ultraravvicinati) e iperrealistica (zampilli di sangue che imbrattano i muri, sparatorie ipertrofiche e assordanti). Lo stile di Milius si rifà esplicitamente alle fotografie incastonate nelle prime pagine dei giornali d'epoca: immagini che servivano a illustrare la mitopoiesi in presa diretta costruita dai cronisti attorno ai Public Enemies del periodo. Sensazionalismo enfatico, mitografia sul campo.

L'intento è chiaro: rappresentare gli scontri a fuoco rivisitando e rielaborando i codici figurativi sfruttati dalla stampa dell'epoca per illustrare l'alone leggendario che circondava i più celebri rapinatori degli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione del 1929 (non solo John Dillinger, ma anche Machine Gun Kelly, Pretty Boy Floyd e Baby Face Nelson). E' come se Milius avesse girato il film che un regista (o un cronista o un fotoreporter) americano dei primi anni '30 avrebbe girato se non ci fosse stato il famigerato Codice Hays (adottato nel 1930 dalla MPPDA e applicato effettivamente dal 1934).

La stessa prassi sfrenata e irriverente investe la materia narrativa: sbarazzatosi dell'obbligo di glorificare le figure istituzionali al motto di Crime Does Not Pay (celebre serie di cortometraggi prodotta dalla MGM a partire dal 1935), il cinema americano degli anni '70 può confrontarsi liberamente con le forze dell'ordine, smascherandone la brutalità dei metodi e la smaccata vanità dei rappresentanti. Il temibile mastino dell'FBI Melvin Purvis (Ben Johnson) può finalmente essere rappresentato senza censure ed essere assimilato al rapinatore Dillinger (Warren Oates): minimo comune denominatore la sete di fama.

Anzi, Milius si spinge oltre, dipingendo l'ambizione di Purvis (e indirettamente del direttore dell'FBI John Edgar Hoover) come più disumana e letale di quella della banda Dillinger: se Dillinger e soci risparmiano uno dei loro membri, benché gravemente ferito, perché "ha diritto a vivere", Purvis non si fa scrupolo alcuno a imbottire di piombo Handsome Jack Klutas ("Sapevo che non l'avrei mai preso vivo e quindi non ci provai neanche", proclama in voce over). G-Men più gangster dei gangster in Dillinger: un film da prima pagina, crepitante come un mitra e delirante come un sogno di gloria. Irrorata di sangue.

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