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L'amore è più freddo della morte

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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La recensione su L'amore è più freddo della morte

di MarioC
6 stelle

Si può essere iconoclasti anche con i propri numi tutelari. Per il suo primo lungometraggio Fassbinder prende Godard, Chabrol e Melville, li pone su in ideale piedistallo, nell’empireo dei riferimenti autoriali, li omaggia con un anodino cartello nero ad inizio film , quindi li rovescia gioiosamente (e un po’ presuntuosamente), spargendone soltanto le irriconoscibili ceneri putrefatte. Ma l’eco resta: nella gangster story malata di tetra teatralità (come in ogni Fassbinder degli inizi), nella cronaca di un amore impossibile e corrotto, nella violenza sotterranea che si fa improvvisa esplosione, nelle sperimentazioni ardite di un cineasta che molto avrebbe dato alla filmografia europea.

 

Abitato da quasi tutti gli attori del successivo Katzelmacher, nonché girato evidentemente al risparmio (se non in sequenza con l’altro , considerata la medesima pettinatura della Schygulla e, pare, il medesimo abito indossato da uno degli interpreti), L’amore è più freddo della morte rappresenta una sorta di trattamento crioterapico del menage a trois. Lo sfrontato e miserrimo pappone, la donna protetta e perduta, il killer che il Sindacato mette alle calcagna del primo. Gli incroci dei possibili legami sono i più vari che possano immaginarsi: Fassbinder analizza, seziona e scarnifica il tradimento, la attrazione omosessuale, la condivisione di un corpo, l’impossibilità di appropriarsi di un’anima. La stessa ontologia dei termini va aggiornata secondo i dettami del regista tedesco: il tradimento fisico è infinatamente meno grave di quello/quelli che affollano il finale, la pulsione erotica soggiace alle regole di un gioco sporco, le anime ricercano una propria strada e paiono trovarla in raggiri, pistolettate e scie di sangue.

 

Nel suo giocoso operare in sottrazione, nella rifinitura di dialoghi come al solito ossessivamente scoloriti, Fassbinder realizza un film d’esordio a tratti insostenibile, schiavo della propria struttura teatrale e non vivificato dagli accessi di umorismo che permeavano Il fabbricante di gattini. Opera comunque che, specie se guardata in prospettiva, rimanda i primi bagliori del genio registico di RWF, capace di porre sul tappeto una vitalità mutevole e boriosa, eppure già profondamente consapevole.

 

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