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Nashville

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Nashville

di rocky85
10 stelle

Un megafono radiofonico impazzito urla rapidamente i nomi degli interpreti mentre si mescolano, quasi indistinguibili, i suoni e le canzoni, come a mostrarci subito il senso di confusione e di caos a cui stiamo per assistere.

Siamo a Nashville, nel Tennessee, patria della musica country. Qui, per cinque giorni, si svolge un popolare festival musicale cui partecipano un nutrito ed eterogeneo gruppo di personaggi, tra nomi emergenti e veterani del genere folk. C’è il famoso cantante Haven Hamilton (Henry Gibson), patrocinatore di antichi valori morali tipicamente americani quali la famiglia e l’amore per la nazione (“Dobbiamo pur aver fatto qualcosa di buono per essere qui da 200 anni”, canta patriotticamente). C’è la giovane star Barbara Jean (Ronne Blakely), in profonda crisi depressiva, assistita da un marito-manager (Allen Garfield) che cerca di preservarla dalle ansie e dalle nevrosi della manifestazione e che è costretto a farla ricoverare in una clinica. C’è il cantautore Tom Frank (Keith Carradine), tormentato e silenzioso collezionista di avventure di una notte, che corteggia spudoratamente la casalinga Linnea (Lily Tomlin), moglie annoiata di un avvocato (Ned Beatty). C’è la giovane cameriera Sueleen Gay (Gwen Welles), desiderosa di sfondare nel mondo della musica ma particolarmente stonata e usata da un bieco impresario per farla spogliare davanti al putrido pubblico di una convention repubblicana. C’è la giornalista Opal (Geraldine Chaplin), ingenua, svampita e maldestra ricercatrice di vip da intervistare. Attorno a loro e ad altri personaggi, si muove la campagna elettorale di un politico di destra, tale Hal Philip Walker, che non entra mai in scena ma cosparge la città di manifesti e onnipresenti slogan propagandistici. Il suo segretario John Triplette (Michael Murphy) si aggira tra i cantanti della kermesse, cercando di convincerli a partecipare ad uno show elettorale che si terrà davanti al Partenone, una antica costruzione che riproduce con cattivo gusto il celebre monumento storico greco.

Nashville è senza dubbio l’opera-summa del cinema di Robert Altman, nonché punto di non ritorno nel cinema americano degli anni Settanta. Manifesto di un’epoca più di quanto siano stati film come Easy Rider, Nashville è l’apoteosi dello stile altmaniano, e soprattutto l’apologo per eccellenza dello sbando totale di una nazione. Una nazione che tira a campare sulle scorie di ferite inguaribili. Una nazione che ha visto morire i propri sogni a Dallas e a Los Angeles, con le morti di John e Bobby Kennedy. Una nazione che è diventata una enorme torre di Babele nel quale gli eventi si susseguono e si scompongono. “È l’America: macchine accatastate e cadaveri maciullati”. Incidenti, enormi ingorghi, la gente che ci mette poco a perdere la calma e usare le maniere forti.

La confusione più assoluta: 24 protagonisti e le loro vicende, un uso del sonoro che non concede tregua e che permette ai vari personaggi di parlare contemporaneamente, di cantare e di blaterare mentre spot pubblicitari si alternano ovunque, dalle reclame ai manifesti politici. Altman usa l’arma dell’ironia e del grottesco, il più delle volte mischiato ad un’amarezza e malinconia che cede il passo dinanzi alle nefandezze più bieche del genere umano. La coralità del racconto permette una fluidità che non concede sosta per tutti i 150 minuti di durata. Va da sé che la colonna sonora ha un ruolo fondamentale all’interno del film. Tutti gli interpreti scrivono e cantano le proprie canzoni, mix impazzito che spazia dal rock al folk, dal country al gospel. E così la voce angelica della povera Barbara Jean si alterna a quella triste e malinconica di Tom (la canzone I’m Easy, scritta e cantata da Keith Carradine, vinse l’Oscar come miglior brano tratto da un film), quella inascoltabile di Sueleen a quella calda e fiera di Hamilton. Il pessimismo di Altman sembra inguaribile. La macchina politica coinvolge tutti, riuscendo a portare sul palco del candidato Walker tutti gli interpreti di Nashville, compresi quelli che soltanto poco prima si dichiaravano orgogliosamente democratici. Tutti insieme a cantare sotto uno striscione che reclama in bella vista un nome che racchiude tutte le ambiguità e le incoerenze di una classe politica che attraverso i suoi slogan proclama tutto il contrario di tutto. E sotto una bandiera tanto orgogliosamente sventolata, eppure mai tanto vituperata.

Poi uno sparo all’improvviso, la tragedia che incombe sul palco quasi indisturbata e inascoltata. “State calmi, non siamo a Dallas, ma a Nashville!”, e a Nashville si canta. E così, tutti insieme ad intonare It don’t worry me (A me non importa). Bisogna cantare: del resto, si sta celebrando il funerale di una nazione.

 

scena

Nashville (1975): scena

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