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Bread and Roses

Regia di Ken Loach vedi scheda film

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La recensione su Bread and Roses

di Decks
8 stelle

Nel 1912 il titolo di questo lungometraggio di Ken Loach non appariva sui grandi schermi, ma su dei manifesti. Parole scritte da operai tessili stanchi di dover dedicare la loro vita esclusivamente sul lavoro. Pane e rose, il minimo vitale e la bellezza, entrambi necessari per il benessere umano.

 

Non abbiamo, però, di fronte un film storico: Loach attraversa per la prima volta i confini statunitensi, e non solo in ambito registico, ma tramite degli immigrati, che accompagnati da degli sciacalli senza cuore (e una macchina da presa frenetica e piena di spasmodici scossoni) passano le frontiere per raggiungere il sogno americano.

Ma nell'immaginazione di questi stranieri non vi è desiderio di gloria o successo, essi sono degli umili; tanti di loro vogliono solo abbracciare la propria famiglia o solamente avere la possibilità di un lavoro la quale paga gli permetta di sopravvivere decentemente. Sembra l'inizio di un pesante dramma, ma Loach dopo i primi dieci minuti passa ad un'atmosfera più leggera, a tratti persino comica, tipica del regista: spesso vi è tempo per delle leggere risate, ben accette e gradite, ma il regista resta costantemente schierato a fianco di povere persone licenziate senza un motivo, costretti a subire angherie e soprusi di multinazionali, che li sfruttano dato il loro essere clandestini.

Maya non ci sta, ha trovato un lavoro ma vuole combattere per l'uguaglianza ed aiutare i suoi compagni. Non ha lo stesso pensiero della sorella e di molti altri dove "E' preferibile galleggiare in un mare di merda, anziché combattere e affogare", pensa al futuro e alla dignità umana, qui calpestata da dei veri e propri tiranni. Il licenziamento è difatti visto similmente ad una condanna a morte o ad un esilio, un pericolo incombente e quasi mortale, capace di far precipitare una povera ragazzina nel furto, pur di aiutare coloro a cui vuole bene.

 

La regia di Loach è matura, sapiente, procede spensierata per quasi tutto il film, ma ogni tanto vi alterna delle scene dure e significative, a volte davvero spietate. Quelle di una realtà difficile che sono un pugno nello stomaco per qualsiasi pubblico: non solo licenziamenti o tentati abusi, ma persino una vita rovinata a causa di un sistema immorale e disumano, che costringe una povera ragazza a raggiungere bassezze inconcepibili volte al benestare della sua famiglia. Essa è forse la migliore scena di tutta la pellicola.

Loach quando serve è duro, e riesce benissimo nel suo ammirevole intento di catturare nel dettaglio i problemi di gente ormai annichilita dallo sfruttamento. Paul Laverty nelle sceneggiature come al solito non delude. Lo stretto collaboratore di Loach, crea dialoghi non solo emozionanti, ma che colpiscono oltre che bene, diretti il problema della situazione, affrontando ampiamente tutti i disagi di questa working-class senza un briciolo di autostima o di diritti inalienabili per l'uomo (e non alieni, tanto per citare il film). Anche fotografia e colonna sonora sono ben eseguite: niente di ricercato, la leggerezza e spensieratezza di Loach è presente anche in esse, con l'unica differenza, che a distanza di anni adesso risultino un po' datate.

 

Se ricercassimo qualche aspetto negativo nel film però sarebbero sicuramente i seguenti: primo su tutti l'aspetto recitativo. La maggior parte del cast non riesce a dare prova di doti recitative sufficienti, quasi incapaci di mostrare credibilità ai propri ruoli, per fortuna la messa in scena di Ken Loach aiuta parecchio, ma più volte, in particolare nelle scene drammatiche l'uso di attori alle prime armi si sente, in particolare la protagonista Pilar Padilla: a tratti inverosimili le sue espressioni di rammarico. Nemmeno il più famoso Adrien Brody riesce a dare un buon spessore al suo personaggio, che al contrario è sottile e talvolta fastidioso. Loach poi compie l'errore nel voler creare un triangolo amoroso purtroppo scontato, prevedibile e sconclusionato, che vede Maya "combattuta" tra un sindacalista e un suo compagno di lavoro, arrivati al finale esso è praticamente inesistente, mentre prima risultava prolisso e con abissali differenze tra queste scene (per fortuna poche) e tutte le altre di buona fattura.

 

Nonostante il ritmo spensierato, Loach firma un'opera durissima e dal profondo realismo. Riesce come pochi a trattare di più temi, che spaziano dai diritti del lavoro all'immigrazione e persino alla sanità statunitense (già a lungo criticata) tenendo ben saldo l'intreccio con maestria. Va dunque fatto un grande applauso al regista britannico per aver saputo stare al fianco dei modesti e al suo sceneggiatore Laverty per aver portato sullo schermo non personaggi, ma persone.

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