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Deserto rosso

Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film

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Dixyy

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La recensione su Deserto rosso

di Dixyy
6 stelle

A fronte dell’esperienza Neorealista, creatasi collaborando con Visconti e Rossellini, Michelangelo Antonioni decide di privare il cinema dell’impegno civile di cui era impregnato, e di ricondurlo al puro atto estetico/teorico del racconto della realtà. In questo contesto, nel 1964, esce Deserto Rosso; ottavo film e mezzo di Antonioni, considerando l’episodio di Amore in Città, non a caso viene realizzato giusto un anno dopo il capolavoro felliniano. Le azioni dei suoi personaggi si presentano come attoniti vagabondaggi  in scenografie sconsolate che nell’adempimento  di una visione quasi onirica diventano rappresentazione  dell’Io. Tuttavia in Antonioni non c’è più un’ emozione precisa da estromettere  e da disporre sulla superficie delle cose (come l’angoscia di Guido in 8 1/2 vessato da attori, amanti e produttori bramosi di notizie sul nuovo film); il film diventa una specie di “on the road” dell’anima, ricerca straziante da parte di Giuliana, sulla natura dei sentimenti che la pervadono e che ricoprono ogni cosa intorno a lei; per cui in modo inaspettato e innovativo relega i contenuti del film alla disposizione, di stampo quasi surrealista, delle superfici nelle inquadrature.

 La scelta della Borghesia come soggetto diventa pretesto per narrare di una vacuità totale ed esistenziale evidenziando una totale sfiducia nei confronti delle capacità dell’uomo in termini di conoscenza del reale.

Urlo Munchiano nella storia della Pellicola, Deserto Rosso è la storia di una donna, Giuliana, che ,nel tentativo di suicidarsi in un incidente stradale, finisce in una clinica psichiatrica. Terminato il mese di cura, invece di mandarla in convalescenza in campagna, o a distrarsi in un’allegra stazione turistica, il marito, ingegnere, decide di portare lei e il figlio sui luoghi in cui lavora: la zona industriale di Ravenna, tra altiforni, ciminiere, serbatoi, paesaggi deprimenti, grigi e fumosi. Giuliana invece di “reinserirsi nella realtà”, continua a soffrire di angosce, incubi notturni, striscia lungo i muri, è tutta un brivido.

 Il marito non muove un dito per aiutarla: non la incoraggia nel proposito di aprire una boutique e le mette intorno amici stupidi.

 La casa è arredata con mobili e soprammobili provvisori; il bambino, che non ride mai, è un mostriciattolo che armeggia con microscopi e giocattoli avveniristici  e si diverte a spaventare la mamma.

 Con Corrado, un collega del marito, Giuliana tenta di sciogliersi, lui vorrebbe aiutarla e anche lei sembra sperarci, ma tutto finisce in una camera di albergo. Non sarà certo Corrado a guarirla dalla nevrosi. Dopotutto è il male del secolo, tutti ne siamo affetti, l’unico conforto ci viene dal tenere per mano un bambino e dall’avere coscienza della nostra condizione.

 La colpa di tutto è attribuita alla civiltà industriale. Perfino gli uccellini l’hanno capito, dalle ciminiere esce un veleno mortifero e non ci passano più. Gli uomini invece, ci vanno a vivere in mezzo.

Nel primo film a colori di Michelangelo Antonioni, sfolgorante grazie alla fotografia di Carlo di Palma, che alterna grigiori senza speranza di una realtà industriale di una Ravenna periferica in piena operatività, ai colori sfavillanti di abiti e acconciature (indimenticabile è il cappotto verde intenso della Vitti), o alle visioni paradisiache dell’isola rosa di Budelli, teatro di una favola improvvisata che una madre angosciata non si fa problemi di raccontare al proprio bambino insonne, il grande regista, premiato a Venezia col Leone D’Oro per il miglior film, prosegue ed accentra la sua attenzione narrativa su problematiche molto in auge in quel periodo, ma di fatto nuove al cinema: disagio esistenziale ed alienazione, depressione, incapacità di comunicare il proprio malessere.

Ciò che colpisce del film è il fatto che nonostante le interpretazioni degli attori non entusiasmino più di tanto, sia l’immagine a parlare e a condurre la narrazione. Numerosissimi sono i momenti contemplativi, musica elettronica si alterna con un dolce canto femminile e l’attenzione del regista è rivolta più che alla causalità dell’azione, alla consequenzialità della stessa: nessuno si chiede perché Giuliana abbia tentato il suicidio?

Il dolore, anzi, il fastidio latente di Giuliana, pian piano, scava dentro di lei, andando a formare un trauma che non può essere rimarginato dalla borghesia, una ferita interiore che è invisibile a tutti tranne che alla medesima, che in ogni caso, non riesce ad identificarla, sente qualcosa che cova ma non riesce a dargli un nome, e può soltanto soffrire e rimanerne vittima. L'opera di Antonioni, si inserisce in modo eccellente nel panorama cinematografico della critica alla borghesia trovando in Monica Vitti e in Richard Harris due protagonisti mastodontici. 

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