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Deserto rosso

Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film

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La recensione su Deserto rosso

di Aquilant
8 stelle

Film di “figure nel paesaggio e di paesaggio senza figure” a detta dei critici, dalla trama quasi inesistente che procede a sbalzi in una serie di sequenze apparentemente slegate fra loro ma in realtà tutte convergenti in un’unica idea base che ne costituisce il motivo conduttore e contiene in nuce lo spunto emozionale atto a generare per fasi successive l’intera vicenda: lo sfaldamento della realtà posta davanti all’individuo, tema già preannunciato nella stupenda sequenza finale de “l’Eclisse”, vero e proprio preludio a questo “Deserto rosso”. L’incipit ci rimanda immagini sfuocate di fabbriche, ciminiere, fumi gialli, veleni, capannoni industriali visti come nuove cattedrali del progresso mentre un camion scorre alla svelta sopra i titoli di testa per lasciare spazio a nuove spaesanti visioni della serie “la Morte di Megalopoli” di Roberto Vacca. Tecnologie industriali dedite a vivere di luce propria, intente a sfuggire all’umano controllo. Imponenti architetture metalliche che stanno a testimoniare ai posteri l’avvenuto passaggio di consegne tra l’individuo ridotto alla stregua di un’entità anodina e il destabilizzante mondo delle macchine. Ed intanto la donna in verde con bambino annesso osserva impassibile il lungo corteo di vittime umane da immolare in sacrificio al novello Moloch. Completamente estraniata dalla realtà circostante. Mera, trascurabile forma immersa nel paesaggio, protesa a mordicchiare un panino in uno sfondo nero di pece che ingolfa ogni colore preesistente. Giuliana, la donna in verde che ha male ai capelli, ossessionata dai doveri inerenti al suo mestiere di madre. Terrorizzata da strade, fabbriche, colori, rumori. Alla scoperta di un’inesistente scintilla di vita in grado di scuoterla dal suo torpore, alla ricerca di tutte quelle presenze che le hanno voluto bene per innalzare un muro di protezione attorno alla sua persona.
Afflitta in sovrappiù da nevrosi e da disordine mentale, oppressa da una pressoché instabile visione dei colori. Donna dai discorsi alquanto incoerenti, che ama sognarsi bambina tra voli di gabbiani, cormorani, conigli selvatici, spiagge deserte, mari trasparenti e sabbia rosa, velieri lontani, alla ricerca di voci misteriose nascoste in rocce giganti. Ma il deserto del titolo, d’un rosso indefinito, pullulante di detriti della cosiddetta civiltà industriale, non concede tregua alcuna. Il turbolento ambiente di borsa de “l’Eclisse” qui si è come per simbiosi riciclato in un colorato ammasso di ferraglie all’interno di una fabbrica dai rumori laceranti e dai fumi di vapori che mozzano il fiato, in un estraniamento dalla realtà che si fa sempre più serrato, con l’essere umano sopraffatto dall’ambiente circostante fatto “a misura di macchina” che lo ingolfa rivestendolo della sua stessa materia informe e distruttiva. Fumi e vapori regnano incontrastati in questo nuovo mondo, a pervadere l’intera morta natura circostante insieme a rumori laceranti che generano incubi orribili a base di letti semoventi e sabbie mobili, portati anche di notte nel chiuso della propria vita privata. L’umanità è costituita unicamente da forme immerse nel paesaggio mentre le cose assumono spesso sembianze diverse rispetto alla loro effettiva entità. La dissociazione dell’individuo qui giunge alle sue estreme conseguenze, la stessa facoltà percettiva viene debitamente alterata e le forme sono viste in un’essenza diversa, immerse in uno squallore fuori dal comune e con i diversi piani della realtà come sovrapposti fra di loro, col conseguente annullamento di ogni effetto prospettico atto a conferire una consistenza di materialità alle cose. La nave che sembra attraversare la foresta immersa nel blu in una totale disgregazione della prospettiva è un tipico esempio di questa dissociazione. L’appiattimento dei piani crea l’illusione dell’imbarcazione che passa attraverso gli alberi senza che l’occhio riesca a scorgere la minima traccia del canale navigabile. La natura viene estraniata e violentata nel suo intimo, percepita come una serie di visioni soggettive da parte dell’essere senziente. Il velo di incomunicabilità che nella trilogia andava ad avvolgere i singoli individui ora mira a coinvolgere anche l’ambiente circostante, percepito come un assieme disorganico del tutto privo di proporzioni, mancante di un senso della distanza. Tutt’intorno gente vuota al di dentro che si sforza di recitare la farsa della vita in un crescendo di battute trite e ritrite immerse in una noia incombente mascherata con colori varianti da un azzurro denso ad un rosso vivo, tra discordanti musiche tese a colpire di sghembo. La lunga sequela di ciminiere, capannoni, fabbriche, tubi geometrici, petroliere si pone su di un livello di critica nei confronti della cosiddetta civiltà industriale avanzata che l’occhio del regista percepisce come un inesorabile ma necessario flagello (e che in uno dei suoi film meno riusciti, Zabriskie Point”, arriverà a punire con l’esplosione finale dei simboli del benessere). Si ha però la sensazione che queste visioni di brutture industriali siano in parte svuotate del loro significato naturale proprio in virtù di una reale mancanza di motivazioni che giustifichino la loro esistenza come una vera e propria negatività. In altre parole, il fatto che esse siano ridotte a mere astrazioni e viste come in simbiosi con la natura circostante le rende in parte incapaci di costituire dei segni significanti in grado di suscitare reazioni positive o negative in colui che guarda. Ma resta pur sempre alla fine il fascino di un’opera coinvolgente nella sua imperfezione, punto d’arrivo di una quadrilogia forse datata ma tuttora da additare come uno dei più vivi e strazianti documenti del cinema italiano.

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