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Pane e cioccolata

Regia di Franco Brusati vedi scheda film

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La recensione su Pane e cioccolata

di Peppe Comune
8 stelle

Giovanni "Nino" Garofoli (Nino Manfradi) è un italiano emigrato in Svizzera da circa tre anni per cercare miglior fortuna. Lavora come cameriere in un ristorante di lusso, ha un contratto a termine e si contende il posto fisso con un turco (Gianfranco Barra). I suoi progetti di far venire anche la sua famiglia in Svizzera vanno in frantumi quando viene licenziato dal ristorante e gli scade anche il permesso di soggiorno. Nel corso della sua vita in terra elvetica gli capita di trovare ospitalità da Elena (Anna Karina), un esule greca sua dirimpettaia che vive insieme al piccolo figlio Grigory (Federico Scrobogna), un virtuoso del pianoforte. Poi conosce un ricco industriale milanese (Johnny Dorelli) fuggito dall'Italia per i suoi guai con il fisco. Vive in una grande villa, ha un autista, dei camerieri a servizio ed anche dei mucicanti che vengono a suonargli la sveglia ogni mattina, ma è molto triste. Quindi chiede aiuto al suo vecchio amico Gigi (Tano Cimarosa), che gli offre ospitalità nella baracca del cantiere in cui lavora dove vive insieme a tanti altri operai italiani. Infine si imbatte in una strana famiglia napoletana (Ugo D'Alessio è il padre mentre Giacomo Rizzo è Michele, uno dei figli) che lavora sgozzando e spennando galline ed è felice di vivere in un pollaio.

 

Nino Manfredi

Pane e cioccolata (1974): Nino Manfredi

 

"Pane e cioccolata" (Orso d'argento a Berlino) di Franco Brusati è un film che dietro la patina da commedia tratteggia con adeguata puntualità analitica l'amara esperienza dell'emigrazione dei lavoratori italiani verso l'estero, un fenomeno che, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, ha conosciuto un flusso considerevole verso diversi paesi (e non solo europei coma la Svizzera o la Germania). Insieme allo stato d'animo e psicologico di un emigrante tipo, è dunque delineato un fenomeno sociale che di fatto rende il film ancora attuale. A prescindere dal fatto che i flussi migratori non sono mai cessati d'esistere, basti considerare che la precarizzazione del lavoro scaturita dall'incipiente (e globale) "crisi economica" rende quanto mai urgente la possibilità per tante persone di doversi spostare all'estero per cercare più adeguate offerte di lavoro. L'inizio del film è fantastico, una sequenza breve dalla quale già si capisce che i comportamenti del tutto naturali di Nino contrastano con il senso di ordine e linearità estrema che gli regna tutt'intorno, una cosa questa che gli mette uno strano disagio addosso, facendolo sentire sempre inadeguato, inopportuno. Da questa breve sequenza si capisce subito che Giovanni Garofoli ha dovuto imparare in fretta "l'arte" dell'adattarsi, a comportarsi come di dovere per non finire nelle fauci moralizzatrici degli "ospitanti", perchè gli immigrati come lui, italiani, turchi, spagnoli o quant'altro, coltivano qualche speranza di far furtuna anche attraverso le disgrazie che possono capitare agli altri. É una guerra tra poveri che si combatte sulla resistenza dei nervi. É così per tutto il film, sensazioni che si rincorrono per mostrarci tutta la difficoltà ad integrarsi in terra straniera senza sentirsi degli ospiti più sopportati che accettati. Con tocco leggero, ammorbidendo la malinconia nella risata agro dolce, mostrandoci la verosimiglianza di una storia tipo senza far ricorso allo stereotipo dell'emigrante tutto nostalgia, canzoni e santini. Giovanni Garofoli incarna il tipo d'immigrato che, se da un lato sente tutta la disumanità di un mondo che lo mantiene perennemente sotto esame solo per garantirgli quanto basta per poter appena sopravvivere, dall'altro lato riconosce anche la necessità di doversi migliorare se in esso si vuole nutrire qualche legittima ambizione. "E' tutta la vita che ci fregano con la chitarra e il mandolino e ancora cantiamo. Bisogna cambiarle le cose, non cantarci sopra", dice un incazzato Nino, che in queste parole esprime tutta la sua contrarietà verso un modo di essere italiano all'estero che finisce per ridurre tutto a "macchietta", a trovare consolazione dietro la mera oleografia di maniera. Nino è fiero del suo essere italiano ma non vuole lasciarsi imprigionare da quella nostalgia improduttiva che rischierebbe di immobilizzarlo nella miseria di sempre. La sua famiglia gli manca molto ma tornare indietro significarebbe aver fallito definitivamente. Del resto, almeno un italiano che "si è sistemato bene" e a cui aggrappare le proprie speranze si trova sempre. "Dovreste prendervela con l'Italia che ci obbliga ad emigrare, non con chi ci accoglie e ci sfama" , dice l'industriale milanese rivolgendosi a Nino. Il punto è proprio questo : il grado di ricattabilità sociale raggiunto da chi, senza magari avere specifiche responsabilità, prima si ritrova ad essere povero, poi si vede quasi costretto a ringraziare chi compra a buon mercato la propria miseria. Quando si è costretti ad espatriare per trovare lavoro, ogni tipo di pretesa "legale" si abbassa notevolmente ; quando si ha poco o niente in tasca, per sperare in un futuro migliore, ci si predispone quasi automaticamente alla sopportazione di qualsiasi cosa, pregiudizi, lavori umilianti, abitazioni di fortuna. Si diventa vittime con poche possibilità di sovvertire lo stato delle cose, si finisce per recitare un compiaciuto adeguamento sociale per apparire migliori agl'occhi di chi ci ospita, di snaturare la propria identità per elemosinare un pò di disinteressata complicità (come quando Nino si tinge i capelli di biondo e si mette a ciarlare quel poco di tedesco che conosce). Ma per Giovanni Garofoli c'è un limite che la dignità umana impone di non superare mai. Ed è quanto rappresentato dall'icontro di Nino con la famiglia napoletana (in una sequenza di divertente malinconia), che lavora sgozzando e spennando galline per prepararle alla vendita. Questa famiglia (genitori, figli, mogli e nipoti) sembra aver assimilato i comportamenti delle galline e si accontenta di vivere in un pollaio perchè così risparmia sull'affitto di casa. Poi arrivano "i figli del padrone con i loro amici" a fare il bagno nel lago poco distante (e qui Brusati gioca coi contrasti, anteponendo le miserevoli condizioni del pollaio con le immagini di una natura bella e rigogliosa che sembra uscita da un quadro di Botticelli). Quelli della famiglia li guardano ammirati dalle grate del pollaio, sembrano non considerarli degli esseri umani come loro, solo più ricchi, più giovani e più belli, ma come delle divinità da adorare, come la statua della Madonna di Pompei che troneggia in mezzo al pollaio. È una sequenza questa che, anche se portata al limite del grottesco (l'allusione neanche troppo velata dell'accoppiamento con una gallina dell'unico figlio senza moglie) e usa l'arma corrosiva del paradosso ("Voi siete italiani, io sono italiano. Ma basta questo per essere uguali ?", si chiede un disiorentato Nino), fa emergere una verità amara che si lega al fenomeno migratorio (di ieri e di oggi) : che per assecondare lo spirito di sopravvivenza, l'uomo può arrivare a regredire al rango di animale da soma. Giovanni Garofoli cerca un punto d'equilibrio tra l'urgenza di trovare un lavoro che possa permettere anche alla sua famiglia di trasferirsi in Svizzera e il bisogno fisiologico di mantenere integra la sua dignità di uomo lavoratore. Ed è con un "goool, goool, goool, gool" ripetuto più volte, gridato a squarciagola e rivolto in faccia ad un gruppo di svizzeri che attraverso una banalissima partita tra la nazionale italiana e quella inglese (per la cronaca, finita 2-0 per l'Italia con gol di Anastasi e Capello) ostentano un razzismo strisciante, che Nino esprime la sua istintiva ribellione verso un idea di integrazione che non può e non deve comportare la perdita della propria identità nazionale. È un Nino condotto al limite della sua sopportazione emotiva questo, un uomo in cui tanti, di ieri e di oggi, possono riconoscersi. Grande interpretazioni di Nino Manfredi (tre le sue migliori in assoluto) per un film che corre il dovere rinverdire spesso : perchè bello e perchè tristemente attuale.

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