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2001. Odissea nello spazio

Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film

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vulgar hurricane

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su 2001. Odissea nello spazio

di vulgar hurricane
10 stelle

Troppo spesso siamo soliti sprecare inutili paroloni per descrivere, e lodare, questo o quel film, questa o quell’opera d’arte: C’era una volta in America, Apocalypse Now, M il mostro di Dusseldorf, Arancia Meccanica…tutti fantastici, certamente, nessuno oserebbe negarlo. Poi, però, ti capita un giorno di assistere alla visione della pellicola più rappresentativa dell’intera produzione kubrickiana, e finalmente capisci quanto siano stati vani tutti i tuoi sforzi e giudizi precedenti. Perché 2001: Odissea nello spazio è l’ APOTEOSI del cinema. E’ un capolavoro straordinario, immortale, un universo a sé stante, perfettamente compiuto e autodefinito, dotato di quel fascino iperuranico, asettico, gelido, che puoi riscontrare solo in poche altre opere ugualmente imperiture, quali lo sono ad esempio il viaggio dantesco, le sinfonie di Mozart, le immagini che emergono dalle ispirate e raccapriccianti pagine del Lovecraft più visionario. 2001 è Qualcosa che se pure non lo guardi, esiste comunque, brilla di luce propria, perché il suo autore è riuscito a consegnarlo ad una dimensione superiore, divina, lontana da “quest’ atomo opaco del male” quale è la Terra, per consacrarlo, forse (è solo una mia opinione, naturalmente),come la creazione in assoluto più suggestiva e meritevole di tutte quelle che l’intera civiltà umana, nei suoi secoli di turbolenta esistenza, ha saputo esprimere e produrre. Un traguardo metafisico eccezionale ed inesauribile, così come lo sono il tema portante del film (lo sviluppo, l’evoluzione umana) e le reazioni che esso si dimostra capace di scatenare nell’estasiato spettatore: un tale risultato si può anche adorarlo o detestarlo, mai però potrà venire ignorato o dimenticato.
Il fatto che comunque più di tutto il resto concorre ancor oggi a stupirmi e a coinvolgermi, è che il Capolavoro in questione è riuscito, riesce e fino alla fine riuscirà ad esercitare un’influenza ENORME sulla mia vita, sulla mia percezione esistenziale, fornendomi continuamente, ad ogni visione ( a partire da quella, illuminante e primordiale, del 5 gennaio 2005) molteplici risposte, e altrettanto innumerevoli quesiti: è proprio la fluidità e l’importanza dell’incontenibile messaggio kubrickiano, a rendere quest’opera inesauribile e immortale, a farne una guida d’eccezione per l’evoluzione della civiltà umana, che poi, come già detto, è anche il pilastro tematico su cui il film si basa, e dal quale poi si protende verso l’infinito noumenico dell’universo.
Ma come viene sviluppato questo ardito contenuto? Attraverso un difficile e ultramillenario percorso, che affonda le sue radici addirittura nell’età preistorica. E’ questa infatti la celebre sequenza d’apertura, nella quale la pellicola mostra un gruppo di ominidi, privi della scintilla dell’intelligenza, condurre un’esistenza stentata, penosa, priva di stimoli diversi dalla necessità di procurarsi il cibo e un valido riparo per la notte ed i predatori. Poi, però, improvvisamente, tutto cambia: un elemento di disturbo si inserisce nel loro immaginario percettivo, alterandone estensione e qualità, permettendo allo sviluppo umano di compiere un primo, fondamentale passo. Questa entità aliena, capace di scatenare nelle scimmie primitive paura, ma anche, e soprattutto, curiosità (una delle attitudini più rilevanti in qualsiasi forma di vita), e di realizzare l’avvento dell’ Alba dell’uomo, è un oscuro monolito, presenza enigmatica ed inquietante attorno alla quale gravita non solo l’asse portante della pellicola, ma l’intero progresso della nostra civiltà. E la sua rappresentazione è un primo, straordinario colpo di genio del talento del regista (come tanti altri ce ne saranno ancora successivamente), il quale infatti, in maniera eccelsa, si concentra più sul raffigurare le conseguenze di quell’incontro che sull’ individuazione del suo misterioso protagonista. Una scelta obbligata, forse, ma eccezionalmente importante, perché consente a Kubrick di evitare una superficiale rappresentazione di ciò che per sua stessa definizione è irrappresentabile (cioè l’elemento originario della creazione dell’uomo) per lasciare il tutto alla discrezione e alla sensibilità dello spettatore: e questa è un’ulteriore dimostrazione dell’inesauribilità, dell’immortalità del messaggio del film, che sempre, in ogni epoca e in ogni dove, saprà suscitare in chi vi assiste una reazione personalissima ed unica, diversa da tutte le altre. Si può quindi ben dire che esistono tante “Odissee nello spazio” quanti sono gli spettatori.
Detto questo, il film prosegue concettualmente con un balzo ultramillenario giungendo direttamente, dall’alba dell’uomo, a quella che sembrerebbe essere l’età del suo massimo splendore, illustrata nelle indimenticabili immagini del “valzer delle astronavi”, probabilmente la sequenza più suggestiva e famosa dell’ intero scenario cinematografico. Ancora una volta, un altro colpo di genio, un altro tocco di classe: il ballo aerospaziale qui simboleggia, o meglio, dovrebbe simboleggiare, la razionalità, l’equilibrio, il controllo sull’ambiente che l’uomo è riuscito, nel corso dei secoli, ad espandere e migliorare, proprio a partire dall’incontro con il nero monolito. E tutto ciò è sottolineato dall’armonia, composta e perfetta, della musica di Strass. Peccato, però, che tutta questa idilliaca compiutezza sia in realtà puramente illusoria: perché l’uomo ha sì raggiunto lo spazio, il cielo e le stelle, ma non è fatto per vivere in questa dimensione. E’ ancora una creatura terrestre, con un orizzonte percettivo piuttosto limitato ed inadeguato rispetto a tale nuova frontiera della civiltà, come d’altronde dimostrano i lenti ed impacciati movimenti degli astronauti, abilmente descritti dal regista, e la continua, ossessiva presenza, sullo sfondo, della Terra, del nostro originario pianeta, dal quale proprio non riusciamo a disgiungerci, acquisendo quella sicurezza nella vita astrale di cui difettiamo e della quale però abbiamo profondamente bisogno per continuare la nostra esistenza.
A questo punto, la pellicola procede con un intreccio narrativo che, inutile ripeterlo e sottolinearlo nuovamente, è senz’altro celeberrimo e magnificamente esibito. Quello che mi preme è proseguire la descrizione dello sviluppo del tema sull’evoluzione della nostra civiltà così come Kubrick l’ha raffigurato. In tal senso, fondamentale è la lunga sezione che narra le vicende del Discovery e, soprattutto, del magnifico Hal 9000. Innanzitutto, straordinaria è la rappresentazione del viaggio spaziale: al contrario che in precedenza (e cioè nella sequenza del valzer delle astronavi), qui armonia, equilibrio e controllo razionale sull’ambiente si eclissano, si dissolvono ineluttabilmente, a simboleggiare appunto le difficoltà che ora l’essere umano incontra lungo il suo audace percorso, ormai così distante dalla Terra, e diretto verso Giove. La sinfonia di Strass è sostituita dal gelido freddo siderale (i battiti del cuore e il respiro sono gli unici suoni percepibili: come sembrano fastidiosamente estranei a tutto il resto- ennesima prova che gli astri non ci appartengono ancora…), le inquadrature, prima così vaste ed estese, diventano ora “strette”, vacillanti, più limitate, come accade al nostro stesso bagaglio di esperienze e percezioni. Per quanto riguarda poi la figura di Hal 9000, questa è centrale per il progresso del film: Hal è infatti un computer creato per essere come l’uomo. Suona certo sgradevole a dirsi, sembrerebbe una contraddizione bella e buona, ed in effetti lo è anche per il regista, che in questa fase centrale dell’opera ci pone direttamente a confronto con noi stessi o meglio, con una nostra copia, partorendo un incontro metaforicamente splendido. Grazie infatti a questo accostamento, l’essere umano sarà capace di comprendersi più profondamente, di evidenziare ciò che veramente lo distingue dalla macchina, e con ciò potrà finalmente venire compiuto un nuovo passaggio evolutivo, così come il primo c’è stato attraverso il balzo dalla condizione di scimmia-ominide a creatura intelligente, curiosa e creativa. Cos’è, infatti, che distingue indissolubilmente David da Hal? Semplice: le emozioni, i sentimenti, senza dubbio, ma prima ancora, l’ AUTOCONSAPEVOLEZZA della vita, l’attaccamento all’esistere, che il computer può solo imitare in maniera blasfema senza una reale convinzione (e la “supplica”, sempre più glaciale ed inumana, che Hal rivolge al protagonista nel momento in cui sta per spengerlo, è in ciò assolutamente emblematica). In questo senso, tale attaccamento alla vita è manifestato da Kubrick, con l’ennesimo colpo di genio, nelle straordinarie scene in cui Keir Dullea cerca con la sua piccola sonda di recuperare il corpo del suo ormai defunto compagno, per poi, dopo aver scoperto il “tradimento” di Hal, abbandonarlo nelle profondità dello spazio e cercare la propria disperata salvezza: eccola, quell’autocoscienza in azione, eccola la vita che trionfa sulla morte. Fantastico.
Infine, per completare l’analisi del film e del messaggio kubrickiano, concentriamoci sulla ricchissima sequenza finale, e sul nuovo contatto con il nero monolito. David, in seguito alla distruzione di Hal, ha dato prova evidente della sua sviluppata e consapevole percezione vitale, e si appresta, finalmente pronto, a compiere quel salto qualitativo-evolutivo che ancora mancava. Il monolito è lì, che orbita attorno a Giove, e il protagonista, ancora una volta spinto dall’innata curiosità, vi si avvicina. Ma il passaggio non è indolore: il povero astronauta, ancora in balia della sua insufficiente conoscenza terrestre, viene trascinato in un caleidoscopico vortice cosmico di colori sfavillanti, di forme astruse e attualmente incomprensibili, seppur comunque razionali (lo dimostrano i “rombi stellari” che appaiono in un ben preciso, ma brevissimo istante), e si avvertono perciò tutti i nostri limiti. Forse è proprio in questa spettacolare sequenza “del trapasso” che Kubrick esprime, stilisticamente, il meglio di sé: mai nessuno era riuscito ad andare in maniera così esplicita oltre i nostri consuetudinari cinque sensi, a raffigurare ciò che non è raffigurabile e, soprattutto, a comunicarci tale magnifica esperienza. Abbastanza difficili potrebbero poi sembrare, almeno a prima vista, le ultime scene della pellicola. David, dopo quell’ intenso “trasumanar”, si ritrova improvvisamente in una normalissima stanza, di stile decadente. Cosa può significare tutto ciò? Per l’ennesima volta, occorre interpretare il sensazionale tocco di classe del regista: simbolicamente, infatti, la stanza in questione vuole rappresentare, palesare, l’inadeguatezza, la vanità, addirittura l’ INUTILITA’ della vita che l’uomo attualmente conduce, ritrovandosi, solo, in uno squallido, angusto locale, privo di spazio, di libertà, della possibilità di esprimere il suo estro creativo, costretto ad un’esistenza arida e miserevole. E’ la condizione che precede immediatamente ogni slancio evolutivo: quell’ esistenza che prima ci aggradava e ci soddisfaceva, ora appare priva di attrattive e di stimoli necessari alla prosecuzione della vita stessa, così come accadeva nella sequenza iniziale delle scimmie-ominidi, che prima di acquisire l’intelligenza si trascinavano passive in un territorio anch’esso sterile e desolato. Ma grazie al contatto con il monolito, la situazione cambia radicalmente: le scimmie, ormai uomini a tutti gli effetti, acquisiscono coscienza di sé e dell’ambiente, plasmandolo, forgiandolo, adattandolo ai propri bisogni, per abbandonare quella condizione in cui prima vivevano senza problemi, e che ora è invece diventata inaccettabile. E’ la legge implacabile dell’evoluzione, dello sviluppo, e lo stesso accade ora con David: mentre muore come uomo, nella sua misera, banale, stupidissima stanza, rinasce come Super-uomo (Nietzsche non me ne voglia!). E’ ancora un embrione, ma la sua nuova frontiera è l’universo intero, l’infinito: ciò che prima non gli apparteneva, ormai è totalmente suo, o, meglio ancora, nostro, dato che anche noi, in quanto uomini, possiamo essere destinati al medesimo splendido avvenire. E con ultimo, disincantato e quasi divertito saluto alla Terra, sottolineato dalla suggestiva colonna sonora, il film termina, pronto a dirigersi’ e a portare noi con lui verso il futuro, verso le stelle, verso il Divino…

Prima di concludere definitivamente, volevo comunque evidenziare un’ultima volta alcuni aspetti personalissimi che il Capolavoro in questione mi ha comunicato: innanzitutto, occorre in tal senso specificare che queste sono semplicemente delle MIE conclusioni (come d’altronde tutto il resto), che non devono affatto essere, per così dire, “assolutizzate”, prese passivamente alla lettera, perché appunto, come già affermato, il bello di 2001: Odissea nello spazio consiste proprio nel fatto che tale film permette ad ogni spettatore di compiere ragionamenti unici e speciali. Ciò premesso, cosa sono riuscito io stesso a ricavare da tale metafisica dissertazione che Kubrick ha voluto così generosamente condividere con il genere umano? Tanti, tantissimi sono gli aspetti che meritano di venire presi in considerazione. Soprattutto, a mio avviso, il messaggio della pellicola si fonda su alcune splendide considerazioni, che pure sono solo una minima parte di tutto ciò che esso può offrirci: l’evoluzione dell’uomo, pilastro dello svolgimento tecnico-narrativo, viene ad essere determinata non esclusivamente dal nero monolito, entità Trascendente la cui importanza nel processo di sviluppo è indubbia, ma anche, nella stessa misura, da un elemento Immanente insito nell’ominide, e cioè la curiosità, quest’impulso primordiale, prima sopito o inesistente, ora risvegliato o germogliato grazie al contatto con la presenza aliena. La curiosità, quale potere di reagire agli stimoli, di interagire attivamente con l’ambiente circostante, è centrale sia nell’evoluzione originaria della scimmia, che nell’evoluzione “finale” di David. Si può quindi ben dire che, quando nasce la curiosità, nasce l’uomo stesso!
Altrettanto importante è poi la considerazione che l’essere umano, per procedere lungo la strada del progresso, per migliorare qualitativamente la sua esistenza, dovrà risultare in grado, quando necessario (e questa necessità scaturisce da una sua intima, autentica ed irrefrenabile convinzione), di abbandonare, pur dolorosamente, le esitazioni ed i problemi del passato, per proiettarsi direttamente nell’età futura e sperare così di realizzarla, di esserci ancora potendola plasmare e viverla intensamente: grande riflessione, che può venire ricavata dalla sequenza in cui David abbandona il cadavere dell’amico per salvare se stesso, e la scena finale della stanza gelida e vuota, metafora di un’epoca ormai conclusa ed inadeguata, che deve allora venire superata per il proseguimento, ma ad un livello superiore, della vita stessa.
Infine, ed ancor più importante, è comunque il senso complessivo dell’opera che ho personalmente intravisto: in quanto uomini, non dobbiamo mai arrogarci il vanto di sentenziare: “Siamo arrivati, ce l’abbiamo fatta, abbiamo raggiunto il nostro scopo!”. Sarebbe allora la morte, la distruzione di un mondo che nella mancanza, nell’anelito verso ciò che ci circonda e di cui difettiamo, trova il proprio senso, sarebbe la fine di ogni sfida, di ogni stupore, di ogni curiosità, che abbiamo visto invece essere l’elemento fondativo centrale della nostra razionalità (che con essa nasce), e quindi anche dello sviluppo della civiltà umana. La vita, e lo stesso traguardo supremo dell’esistere, è quindi un continuo, dialettico DIVENIRE. E’l’uomo può così tendere all’essenza più intima e profonda dell’universo, e quindi auto-superarsi, solo essendo pienamente se stesso, grazie a tutte quelle magnifiche esperienze e facoltà che lo contraddistinguono e lo innalzano (curiosità ed autocoscienza in primis).
Questa, in una implacabile ma inevitabile sintesi, la mia conclusione. In ogni caso, continuiamo a vedere questo film, a sognare con lui, ad azzardare tutte le volte nuove interpretazioni delle quali nemmeno il regista doveva essere perfettamente consapevole. L’importante è che non ci stanchiamo mai di farlo, che non cessiamo di scrivere e rivelare quello che la pellicola ci ha suggerito. Ma bisogna anche stare attenti al rischio che Socrate, così saggiamente, aveva segnalato; la scrittura fossilizza il pensiero. Non perché essa sia inutile o nociva, tutt’altro, è una delle più intense e significative forme di comunicazione che la vita è riuscita ad esprimere, inferiore solo alla musica. Scrivere significa fissare le proprie idee sulla pagina per poi analizzarle con più calma e lucidità, e poterle quindi contraccambiare con gli altri. Ma un problema, una difficoltà, effettivamente c’è: una volta che hai scritto qualcosa, rischi di assolutizzarlo. Di crederlo vero, perfetto, immutabile, di leggerlo affidandoti completamente ad esso. Invece occorre problematizzare, mettere in discussione, scomporre e poi ricomporre in forme sempre nuove e diverse quello che è stato precedentemente fissato. Questo è scrivere con saggezza, questo è evolversi, questo è uno dei segreti che lo stesso Kubrick ha voluto comunicarci attraverso il suo ultimo, strepitoso messaggio circa il mistero (ormai svelato) dell’evoluzione.
E bisogna ringraziarlo per questa sua IMMENSA iniezione di fiducia, speranza e consapevolezza. Io lo faccio ogni giorno: grazie, Kubrick, grazie, non potrò mai dimenticarti…



Sulla trama

Inesauribile nella sua intrinseca ed immortale metafisicità.

Sulla colonna sonora

C'è tutta la sinfonia dell'universo.

Cosa cambierei

Può forse l'umana, limitata natura arrogarsi la pretesa di cambiare ciò che è Divino???

Su William Sylvester

Il mio preferito tra i protagonisti.

Su Gary Lockwood

Bravo.

Su Keir Dullea

In gambissima!

Su Stanley Kubrick

Ineccepibile: l'opera di un GENIO infinito.

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