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Al di là della vita

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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Eric Draven

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La recensione su Al di là della vita

di Eric Draven
10 stelle

 

 

Recensione di oggi, Sabato 23 Giugno 2018

 

Ebbene, in questi giorni Martin Scorsese è a Bologna e, a fine anno, come tutti sappiamo, è atteso col suo già epocale The Irishman con Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci, anche se, essendo una produzione Netflix, non sappiamo se il film, com’è molto probabile ma non certo, verrà presentato in sala o uscirà direttamente sulla piattaforma di streaming più famosa al mondo. Quel che è quasi assicurato è che questo mastodontico kolossal, per poter gareggiare agli Oscar, verrà mostrato in anteprima prima della fine del 2018. E ci auguriamo davvero che ciò possa accadere, che la post-produzione non si attardi troppo per via dei notevoli, massicci effetti speciali che necessitano di mesi e mesi di affinamento, sebbene noi spettatori non lo potremo vedere prima dell’anno a venire. Detto questo, quale migliore occasione per rispolverare una perla magnifica di Scorsese, Al di là della vita (Bringing Out the Dead), una di quelle pellicole forse talmente belle, nitidamente angoscianti, cristologica, paurosamente dostoevskijana, soffusamente maledetta che nessuno prende mai in considerazione e, quando si parla di Scorsese, in pochissimi citano? Wikipedia perfino si è scordata di essa e le dedica solo un trafiletto banale che la liquida in poche epigrafiche righe.

Perché trattano in questo modo quello che invece, stupendamente, è l’ultimo grande capolavoro di Scorsese? Sì, avete letto bene. Permettetemi di obiettare contro chi sostiene che i film con DiCaprio siano grandiosi, personalmente, è paradossale lo so, Gangs of New YorkThe AviatorThe Departed (seppure oscarizzato), Shutter Island e l’insopportabile, sopravvalutato e indigesto The Wolf of Wall Street, non me ne voglia il comunque superlativo DiCaprio, sono proprio i suoi film peggiori. Non ho detto brutti ma peggiori perché sono un avido compromesso con le case di produzione che hanno rattrappito e strozzato il virulento, sanguigno, passionale Scorsese nel mainstream delle logiche commerciali. Film elegantemente magistrali ma privi di quel suo tocco viscerale, poeticamente straziante, funambolico e furioso delle sue massime opere. E, tralasciando DiCaprio, Hugo Cabret e Silence sono, sì, vette altissime, ma scevre della potenza cinematografica più puramente scorsesiana. Laddove, di contraltare, invece i suoi capidopera c’avevano sempre dissanguato emozionalmente, turbandoci nel loro essere furentemente sleepers. Quei film che t’entravano sottopelle, nell’asma dell’anima meandrica squarciata da tanta venustà turbativa, ché non si scollavano più dagli occhi pulsanti e dal cuore nostro dell’interminabilmente adorarli in acute vertigini dell’ammirazione più incantata.

Sì, Al di là della vita è l’ultimo, vero capolavoro di Scorsese. Anno 1999, Scorsese opziona l’allucinata e allucinante novella di Joe Connelly da noi tradotta come Pronto Soccorso, affidandosi al suo folle scudiero Paul Schrader, che riesuma, elucubra e vivifica incendiario il loro masterpiece assoluto Taxi Driver, aggiornandolo, spostandolo e retrodatandolo ai primi anni novanta, in una New York degradata, cimiteriale ma ripulita dallo spietato sindaco Rudolph Giuliani.

Un’altra storia notturna, come Taxi Driver, un’altra parabola delirante e pregna, debordante di umorismo nero come Fuori orario, scandita in sussulti tremolanti, fievolmente fluida e poi cesellata con vigoria, destrezza spericolata da un’infermabile e infernale macchina da presa mobilissima e mai doma, spalmata sull’intaglio sottilissimo d’immagini sghembe, stroboscopiche, fra neon lampeggianti, sirene intermittentemente allineate al brivido corrosivo di anime impazzite, fra catartiche ed esplosive notti livide immerse nella fotografia sbiadita e poi satura, iridescente di Robert Richardson.

Martin Scorsese vuole Edward Norton nei panni del protagonista perché il Norton di quel periodo è praticamente la reincarnazione di Robert De Niro. E il protagonista di questo trip acido e romanticamente doloroso altri non è che il fantasma riposseduto di Travis Bickle, un Don Chisciotte smarrito nella languidezza esiziale del suo perenne tormento esistenziale, assalito da inauditi sensi di colpa, afflitto da un’insanabile, ferale, insistente insonnia spettrale.

Ma Scorsese deve girare con la Paramount e Nicolas Cage, il quale proprio con la Paramount aveva firmato un contratto che lo legava a tre film da interpretare, dopo Face/Off e Omicidio in diretta, libero in quel momento da altri impegni, è stata la scelta pressoché obbligata della produzione.

E, in fin dei conti, la scelta forzata di Scorsese non si è rivelata poi così disdicevole perché a quei tempi Nicolas Cage era genialmente stralunato, iracondo e tenero, buffo, patetico, disarmonicamente aggraziato nelle sue movenze ipercinetiche, dinamicamente (dis)articolate come un invertebrato clown sardonico e sbeffeggiante, la faccia giusta per Frank Pierce, paramedico allo sbando in una New York sull’orlo del collasso nervoso. E i suoi occhi azzurro-verdi son stati un abbinamento fotocromatico strabiliante fra luci e colori liquidamente magmatici.

Frank non è riuscito a salvare una ragazza tossica, morta di overdose, in una freddissima mattina di neve le si è accasciata fra le sue braccia impotenti e mortificate. E da allora vaga come un ectoplasma in una città-metropoli dedalica, scura, tetra e al contempo variopinta, pervasa dalla violenza spasmodica, con sguardo sommesso e poi inferocito, e platonicamente, nella sua pietas, s’innamora di una ragazza bionda di nome Mary Burke come la madonna (Patricia Arquette), il cui padre attende di risvegliarsi dal coma.

In questa sua missione viene accompagnato da tre colleghi più fuori di testa di lui, tre angeli diabolici e sgangherati, degli ubriachi di lavoro a cui il proprio difficile mestiere ha dato al cervello. Incarnati da tre caratteristi da applausi a scena aperta, il grasso e smisurato John Goodman (Larry Verber), Ving Rhames (Marcus) e quell’istrione fumantino e rubicondo di Tom Sizemore (Tom Wells) prima che lo perdessimo...

Dolore, dolore e ancora dolore. E poi i fuochi artificiali nell’immensità luminescente di grattacieli che lambiscono carezzevolmente il cielo, nella vastità della vita sterminata nel suo disperato protendersi verso l’irraggiungibile, vicinissimo e lontano al di là...

Siamo figli delle stelle e dei loro soavi, martorianti ruggiti. Sin al termine di ogni notte.

Di ogni cuore vivo o già morto, resuscitato o crocefisso.

 

 

 

 

 

 

Recensione dei miei trascorsi pindarici

 

di Stefano Falotico 

 

Bringing Out the Dead...

 

Melliflue notti incenerenti ad asma ventricolare

del guerriero assopito nell’ambulanza crociata...

 

Esiziale è l’attimo affranto di non aver potuto salvare una vita umana, e ancor più il senso addolorante di colpa s’imprime acuto nelle profondità della tua anima spellata, denudata da oltretomba, che non si perdona e, lacera, vien inghiottita da spasmi logoranti, avvolgendoti nel delirio workaholic della sua stessa rapitrice, soffocante dipendenza ammorbante.

Le tue iridi, da santo, lacrimano il sangue d’altri morti che non resusciterai.

Tu, battagliero principe, innalzante lo stendardo del primigenio immolarti a difensor geloso del più sacro valore... esistenziale, cioè proprio la vita, la sua metafisica intangibilità.

 

Nel lungo peregrinare notturno, la “fiamma ossidrica” del tuo cuore si sta estinguendo, espugnata dall’assorbente “macchia” che t’offusca languidamente nella spettrale voragine della latente, via via ascendente sofferenza mai a catarsi rinascente.

Piangendo, come una strangolante letalità virale, ammantata e ammaccata dal madornale cannibale tuo a “pasto nudo” che si sta insinuando, da vampiro gocciolante prosciugato nei vivi respiri, nella lenta detonazione del delirio.

Il tuo viso va fuori controllo, si spacca in mille pezzi feroci, frangendoti tra potenti, dolenti spasimi. Non dà tregua quel mormorio rapitore, ti divelle il sorriso e “contorce” la candidezza dei tuoi occhi in follia frenetica alla vana, impossibile ricerca di fuga e redenzione. Non s’attenua la morsa e ti strozza ad abissi recrudescenti della colpa che, martellante, infingarda e subdola, sta divorando il nitore della bellezza...

Sta(i) svanendo nel mortifero sonno dell’irrazionale, sfrenata paura d’aver scelleratamente peccato. Non sei riuscito ad animare il battito cardiaco della tossica minorenne di nome Rose, l’angelo “sporco” e perciò iridescente, puro nella sua acerba, pulsante adolescenza oramai irreversibilmente defunta, “amputata” e già ascesa, speriamo, nell’aldilà...

La voce mastodontica, “funerea” e miracolante di Frank Sinatra scandisce il ticchettio dei flussi vitali “elettrizza(n)ti” destinati a spegnersi, è la melodiosa musicalità stupenda che asperge i rintocchi del tuo “sterile” defibrillatore da martire, l’inebriante soffio magico che s’intinge, come il bacio soave dei cherubini, nella marcia verso la “chimera” del Paradiso. L’apoteosi lucente della meraviglia dinanzi al calvario dell’immane nonsense della vita. E tu, Frank, Frank Pierce, gemi latrante una nuova, funeraria, impotente ira sommessa, la “vanità” del tuo “mercenario” consacratosi al supremo pronto soccorso, piangi flebilmente dinanzi alle già affievolite, (s)morte vite d’altre anime decedute e poi, distrutto, racchiuso nella sfera concentrica della tua ambulanza, cavalcherai ancora screpolato ardore nell’imperterrita, gracchiante marcia rabbiosa della tua inestirpabile inquietudine.

Non la domi, ne sei spaventosamente circuito a raschiato “teschio” del tuo cuore “spremuto” fr’accelerazioni illusorie, sterzate scattanti e il tuo insopprimibile sterno bruciante l’urlo inascoltato, che tu, giammai alleviandolo, eternamente “ausculti” nell’etereo pudore della tua troppo alta moralità da “vinto”. Freme ardentissimo il candelabro lo(r)dato della tua anima tempestata, afflitta come solo Paul Schrader può decantarla, incatenarla e far guaire nel suo driver da light sleeper. Sei rotto dentro, Frank. E adesso la tua anima, imprigionata forse per sempre, sta dirottando anch’essa nell’impalpabile “lietezza dolce” dell’ultima nudità febbricitante, l’esalazione estrema del tuo cavaliere (p)un(i)to da un Dio (in)giusto.

Inquadrature deformanti, la fotografia fantasmatica, chiaroscurale di Robert Richardson, le prospettive sghembe, zoomate e allucinanti, gli improvvisi cambi di registro registico, un cast straordinario di bravissimi comprimari, un Nic Cage perfetto, che “fa male” nel suo sordo, accecante silenzio...

Tratto dall’omonima novella di Joe Connelly, il più incompreso capolavoro del grande Martin Scorsese.

Un film che ferisce, dormiente è gridante, armonica vividezza detonante.

Nella vita prima e dopo la morte, durante il viaggio...

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