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La nona porta

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su La nona porta

di FilmTv Rivista
8 stelle

C’è una porta, la nona, che conduce dritta tra le braccia del diavolo. Gli sprovveduti, ricchi, ambiziosi adoratori dediti a riti ridicoli fatti di camicioni neri, nudità e ciondoli a forma di pentacolo, possono anche lasciarci le penne. Altri, solitarie anime metropolitane impastate di cinismo come Dean Corso («Crede nel soprannaturale?», gli chiede il demoniaco collezionista Boris Balkan. «Credo nella mia percentuale», risponde Dean), possono invece finire per afferrare i segreti di quella porta, guidati da streghe in jeans dedite alle arti marziali. Horror dei più classici, “La nona porta”, che Roman Polanski ha tratto dal romanzo “Il Club Dumas” di Arturo Pérez-Reverte, e che conduce attraverso le prime due ore (in totale dura due ore e 21 minuti) come un’indagine inquietante e minacciosa nei mondi confinanti del potere e delle pratiche sataniche, dove collezionisti leggendari sono pronti a tutto pur di mettere le mani su qualche prezioso fascicolo. Una linearità esemplare: un suicidio dà il via a un’indagine. Il protagonista è un “detective di libri”, appena più giovane, appena più elegante e in soldi del classico Marlowe. Johnny Depp attraversa le strade di Manhattan, poi quelle di un paese spagnolo e di Parigi, alla ricerca di due dei tre esemplari di un manuale satanico del 17° secolo, per poi confrontarli con il terzo, in possesso del suo cliente. Vaga nel buio, come accadeva a Jack Gittes in “Chinatown” o a Richard Walker in “Frantic”. La macchina da presa lo spia, essenziale, silenziosa, denuncia la presenza invisibile di nemici, inseguitori, “angeli custodi” che non lo perdono di vista. La tensione è costante; il mistero dei tre volumi all’apparenza identici si chiarisce lentamente per noi e per il protagonista. Cinema fatto di una materia magica, quello di Polanski, che riesce ad agganciarci per due ore senza nessuna progressione psicologica, con la pura non-azione del mistero. Poi, il famigerato finale (molto criticato), dove tutto esplode: il rito, l’eccesso, il fuoco infernale. Ridicolo? Può darsi: ma Polanski ha un buon motivo per detestare e coprire di ridicolo qualsiasi setta e per credere che la conoscenza possa passare attraverso una notte d’amore con una ragazza che si chiama Emmanuelle Seigner ma che, con i suoi zigomi altissimi, i suoi capelli scarmigliati e i suoi occhi azzurri, assomiglia da morire a Sharon Tate.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 2 del 2000

Autore: Emanuela Martini

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