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Essere John Malkovich

Regia di Spike Jonze vedi scheda film

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La recensione su Essere John Malkovich

di EightAndHalf
7 stelle

I 15 minuti warholiani che segnano la fama di chiunque costano sacrifici, pazzie, ossessioni, oppure 200 dollari. Li si vendono dentro un ufficio rivenditore di sogni, impacchettati come li vuole il conformismo modernista dietro una porticina che è ancora più bassa di quanto non lo sia già l’ufficio, un ammezzato che costringe i poveri lavoratori a piegarsi in due. Il sogno lì dentro è essere qualcun’altro, essere un divo, essere John Malkovich in tutto e per tutto. E tutti, si può starne certi, troveranno l’occasione di provare questo curioso tragitto. La propria vera vita finirà nel dimenticatoio, ma non è forse questo un sacrificio conveniente pur di essere ricordati? La fama non è una forma di alienazione che ci separa dalle nostre vere intenzioni? Ormai si sa che in pubblico, anche se non si è a teatro, si recita, specie se si è attori professionisti e si sa farlo bene. Dunque l’incarnazione massima della pretesa di essere famosi è fuoriuscire dal proprio corpo, dai propri limiti, perché la fama è un inebriante che estende il nostro essere (apparire?) all’infinito, per farci vivere nelle coscienze altrui. In questo modo non importa se poi si è davvero davanti a un pubblico, o se davvero qualcuno ci conosce, noi saremo entrati dentro un altro corpo, che è quello di un divo hollywoodiano, e quel volto ce l’hanno tutti in testa, è un volto noto, che tutti riconoscerebbero. Ecco dunque che si è diventati famosi, tramite un tragitto carponi che ci risucchia dentro un subconscio.

John Cusack, nei panni di uno dei protagonisti del film di Spike Jonze, vende (in nero) la realtà della nostra mente. Vende la psiche, un posto a sedere nell’inconscio. L’inconscio è un motore immobile che ci spinge in direzioni imprevedibili sottomesse al principio del piacere ma intasate dai traumi e dai ricordi. Preso possesso del proprio posto a sedere, l’abitante dell’inconscio di John Malkovich si sostituisce all’inconscio stesso e lo annulla, rendendo John Malkovich una figura piatta, disumana, robotica. John Malkovich ha un inconscio che non sta al suo posto, che è costretto ad appiattirsi sulle pareti del cranio per lasciare spazio a nuove invadenti volontà. Per questo John Malkovich vive sulle spalle della coscienza degli altri. Tutti lo conoscono, tutti ne vogliono sapere i segreti, tutti apprezzano lui e il suo successo, e lui vive di tutto questo. Cos’altro può essere dunque il suo corpo, corpo d’attore, se non un umile riflesso? Uno specchio opaco in cui l’uomo normale può riflettere scompostamente se stesso, la sua nullità, ma anche il suo straordinario potere? Essere John Malkovich filtra e ripropone un nuovo complesso concetto di fama. L’attore normalmente è il burattino del suo regista, e il burattinaio dei suoi spettatori, perché ne controlla le emozioni facendo date azioni. L’attore sa cosa sta recitando e che emozioni destare. Nel film di Jonze questa concezione si capovolge, e l’attore diventa il burattino dello spettatore. Malkovich è un bamboccio irritante privo di un’identità integra, sospinto dagli altri (e non da se stesso) verso un successo che è un enorme fantocciata. Il pubblico batte le mani e avverte nella sua figura una consolazione, quella di vivere una delle tante vite che l’attore reinterpreta, e capisce che l’attore deve aspirare alla normalità per fare bene il proprio lavoro e imitare quella stessa normalità. Allora il pubblico istruisce il suo attore, e ne diviene la spinta inconscia. Il divo diventa strumento nelle mani del pubblico, che è cosciente della portata filosofica di simile evento ma non gliene frega più di tanto perché il suo desiderio è essere quella finzione, essere quel manichino-fantoccio, essere finto. Nella confusione fra realtà e finzione, il motore che muove Essere John Malkovich è in accelerazione verso la finzione. I 15 minuti warholiani sono coloratissimi, impossibili in natura e in civiltà, un mondo altro in cui non esiste più nulla e la vita muore. Regna la finzione, e ciò che il cinema rappresenta. E perché la finzione artistica è reale? Perché da quel mondo finto la realtà la si può osservare meglio, dall’esterno. Dunque capire la propria esistenza è necessariamente vederla dal suo stato finzionale, l’attore, così da capirla e da compiacersene. Sarebbe anche la risposta ai nostri dilemmi esistenziali  (vedi l’illuminazione dei vari personaggi una volta entrati lì dentro), se non fosse un sogno in vendita, e l’uomo stesso non lo corrompesse ulteriormente bloccando l’umanità di qualcun altro, in questo caso John Malkovich, che dietro la sua scorza una personalità ce la deve avere pure. Quindi è tutto un labirinto, un ricapovolgersi nel nonsense, un rotolarsi nell’ipocrisia della nostra razza civilizzata per riderci addosso e capire che facilmente la vita non ha un senso a meno che quel senso non lo si rubi a qualcun altro. Magari con delle quotazioni in borsa o delle gare aziendali a chi raccatta di più.

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