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Pi greco. Il teorema del delirio

Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film

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La recensione su Pi greco. Il teorema del delirio

di OGM
8 stelle

Darren Aronofsky è il regista delle ossessioni individuali, che trasforma in percezioni visive e concettuali. Una metamorfosi cinematografica che si rifà alle astrazioni allucinatorie di Stanley Kubrick; ed ha, come punto di partenza, l’idea del genio come pulsione irrazionale a oltrepassare i limiti della realtà, per esplorare mondi governati da una legge imperscrutabile ed assoluta, in netto contrasto con il comune buon senso. La matematica, con la sua sostanza indefinibilmente divisa tra la dinamica delle quantità misurabili e la rigidità degli impianti formali, si presta più di ogni altra disciplina a questo gioco tra lo psicotico e l’intellettuale, tra l’artistico e il rivoluzionario, in cui la scoperta segue meccanismi subliminali e strettamente personali, impossibili da condividere, o anche solo da spiegare. Max Cohen è irresistibilmente attratto dal mistero di un logos numerico, un modello universale che presiede al funzionamento del cosmo, e che immagina espresso in una sequenza di cifre decimali. Ne insegue la traccia negli schemi geometrici che crede di poter riconoscere nei fenomeni reali, a cominciare dall’andamento dei titoli di borsa.  La ricerca delle regolarità che si nascondono dietro la superficie caotica è un vizio che Max ha imparato da piccolo, e che ha perfezionato crescendo, nel quotidiano sforzo di acuire i suoi sensi (anche artificialmente, con l’uso massiccio di psicofarmaci) per poter mettere a fuoco quella regola di fondo, che si cela in ogni cosa, ma rimane tenacemente invisibile all’occhio umano. È, questa, la sintassi che contiene il significato del fluire degli eventi: quest’ultimo è una sequenza apparentemente casuale, paragonabile ad una successione disarticolata di suoni, che risulta illeggibile se privata della sua struttura grammaticale.  Come nella cabala ebraica, è noto l’alfabeto, e ne sono assegnate le più elementari aggregazioni: singole parole, facilmente decomponibili nelle loro unità fonetiche e simboliche.  Lenny, l’amico di Max, ci ricorda che ogni carattere ha un valore numerico, che può essere usato per effettuare confronti e stabilire relazioni: le lettere delle parole madre e padre danno come somma quella della parola bambini. Anche il sapere scientifico è circoscritto ad ambiti limitati e particolari. Questi possono essere gli insiemi di oggetti della stessa natura, che costituiscono il campo d’indagine di un dato settore specialistico. Oppure possono essere le situazioni spazio-temporali di piccola estensione, entro i cui confini è possibile applicare formule specifiche ed effettuare previsioni a breve termine, e sempre incomplete, perché relative all’evoluzione di un numero ridotto di grandezze: la velocità, il peso, la temperatura. Il principio di Archimede, citato nel film da Sol, l’ex-professore di Max, è basato sul concetto di densità, che è il rapporto tra la massa e il volume: un’espressione aritmetica che racchiude un approccio in fondo molto grossolano e parziale allo studio della statica dei liquidi. La prospettiva scelta è estremamente specifica, le variabili in ballo sono solo due; basterebbe modificarle o aumentarne il numero per cambiare totalmente i termini dell’osservazione, e magari renderla troppo complicata, oppure intraducibile nel linguaggio correntemente usato, che contiene le definizioni di certi concetti, ma ne lascia infiniti altri senza una codifica verbale.  Max vede scorrere, sullo schermo del proprio PC, una serie di cifre di cui non è possibile cogliere il senso, che si susseguono ad un ritmo frenetico, però uniforme, e quindi disorganico. È il frutto di un pensiero diverso rispetto a quello umano – incarnato -  come per l’HAL di Odissea nello spazio  - da una macchina le cui modalità di elaborazione finiscono per rivaleggiare con il nostro raziocinio. E che risultano quindi inarrivabili, come le logiche divine,  e rappresentano tutto ciò che si manifesta ai nostri sensi senza che noi ne possiamo capire l’origine. Quest’ultima ci sfugge sempre e comunque, soprattutto se si tratta dell’origine dei nostri processi cognitivi: questi non possono essere compresi, senza provocare un paradosso del sistema. Il computer a cui, per caso, capita di incontrare la chiave del suo funzionamento, subisce un immediato crash. E, per Max, il desiderio di poter guardare dentro il proprio cervello è un sogno impossibile, che si realizza solo nei suoi momenti di delirio. Non si può vedere all’interno di sé senza morire, o perlomeno divenire pazzi; esattamente come non si può fissare il sole senza diventare ciechi. La troppa voglia di conoscere annulla per sempre la capacità di cercare. Possiamo perdere il discernimento, non riuscendo più a distinguere i dettagli dell’insieme, oppure, al contrario, possiamo finire per vedere ovunque indizi convergenti verso quella nostra ipotesi: se crediamo che 216 sia il principio costitutivo del Creato, potremmo cominciare a notarlo come un numero ricorrente nella nostra quotidianità. Sol esorta Max a non confondere le fissazioni individuali con il rigore scientifico: Max, dal canto suo, difende quella parte  visionaria, sfrenata, e necessariamente egocentrica della ricerca scientifica, che si rifiuta di seguire i percorsi tracciati da altri, per abbandonarsi appassionatamente all’intuizione scaturita ex novo e, in quanto tale, priva di ogni fondamento.  La storia della scienza è piena di personaggi che hanno deciso di intraprendere un cammino autonomo, approdando ad invenzioni strampalate, che in seguito si sono rivelate illuminanti. Il film ricorda solo i nomi più famosi (Pitagora, Archimede, Leonardo Pisano detto il Fibonacci, Leonardo da Vinci), concedendosi un po’ troppo ai cliché della divulgazione spicciola. Tuttavia il discorso è affrontato con profondità ed equilibrio, mostrando entrambi i volti della follia: quello creativo e quello (auto)distruttivo, quello che si impenna nell’onnipotenza e quello che declina nell’impotenza. Del resto, anche l’uomo kubrickiano è schiacciato dal peso della sua stessa esaltazione, dall’ebbrezza di poter andare al di là del plausibile, che è un privilegio fatalmente suicida. Il bianco e nero di Pi greco ci restituisce una visione sgranata, quasi primitiva, della penombra in cui tutti brancoliamo, e che ospita la nostra vana lotta contro l’impossibilità di dominare il nostro destino: una lotta che per l’individuo è una tragedia solitaria e, per i poteri mondiali, è quasi sempre sinonimo di guerra.

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