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Il corridoio della paura

Regia di Samuel Fuller vedi scheda film

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La recensione su Il corridoio della paura

di millertropico
10 stelle

“Gli dei rendono pazzi coloro che vogliono perdere”

 

E’ la giusta citazione da Euripide che Samuel Fuller ha messo come epigrafe all’inizio e alla fine di questo suo capolavoro, e che chiarisce come meglio non sarebbe stato possibile fare, proprio lo scopo didattico di questa straordinaria “impresa cinematografica”, con la quale, se ne ho ben inteso il senso, il regista ha voluto illustrare una tesi specifica, ma operando più sul livello emotivo che su quello intellettuale.

In effetti qui Fuller mette in scena una demistificazione, dolorosa quanto necessaria,  quella della faciloneria un po’ strafottente di una modalità tutta americana di sentirsi “migliori” quasi “superiori”, e devo dire che il protagonista della storia incarna alla perfezione questo tipo di persona, soprattutto se si analizzano i comportamenti e le azioni (la presunzione di poter uscire indenne da un’esperienza traumatica come quella di farsi internare in un manicomio con una scusa abietta per arrivare a scoprire l’autore di un delitto e potersi così assicurare il premio Pulitzer, che rappresenterebbe il vertice della sua carriera di giornalista  a cui tende da sempre).

Adriano Aprà definì a suo tempo Fuller un regista fisico, e questo Shock Corridor  è davvero un ottimo esempio che  ci consente di constatare sul campo la giustezza di tale affermazione, poiché qui i momenti puramente ideologici (nei quali Fuller non teme di esprimersi attraverso la parola, quando questa diventa “esplicitamente” necessaria) sono comunque inseriti in un contesto di grande concretezza e pragmatismo  che il regista raggiunge - per portare a compimento il suo discorso – puntando e focalizzandosi soprattutto sui corpi (neppure molto attraenti quelli dei due protagonisti, volgari e grossolani come risultano essere nel disegno e nella descrizione che ne fa) piuttosto che sulle loro anime.

Di particolare rilevanza a questo proposito, la sequenza iniziale, in cui l’uomo difende a spada tratta e ad ogni costo la sua un po’ balorda iniziativa contro il parere della fidanzata, e soprattutto quella in cui si bea poi delle sue ottime qualità di attore utilizzate nel colloquio col primo psicanalista che sono riuscite a dare scacco matto alla scienza.

Johnny Barrett è dunque un uomo che si accontenta davvero di poco (“questo lungo corridoio è la strada magica che conduce al premio Pulitzer”), e proprio questo è ciò di cui lo accusa Fuller, di essere orgogliosamente soddisfatto della pochezza dei suoi desideri (e su tale pochezza, il regista costruisce ed “esprime la sue evidente  e inappellabile  “condanna” anche morale, più che del personaggio in senso lato, di ciò che rappresenta). Perché Barrett, esattamente come la maggioranza tipica degli americani medi assolutamente convinti della propria superiorità, nella sua impresa  un po’ delirante, parte sicuro di vincere (non ha alcuna incertezza al riguardo), per poter così concretizzare  positivamente i suoi interessi personali, che  sono poi quelli “classici” dell’americano medio, ormai estesi purtroppo a tutto l’universo “emancipato” del pianeta terra: successo, denaro, notorietà e un po’ di strafottenza.

Non glie ne frega invece molto dei “problemi” reali di Stuart, Trent  o Boden,  per lui solo momentanei  e casuali “compagni di svenuta”, e sarà proprio per questo, per aver tradito volontariamente i suoi doveri di uomo pensante che sarà “condannato a sua volta a perdersi definitivamente nella pazzia, una pazzia che è anche “autentica alienazione”. In questo contesto che piano piano degrada e disintegra la mente, nemmeno l’abbraccio disperato di Cathy che vorrebbe negare l’evidenza (l’amore in cui si rifugiano i finali “accomodanti” di molti film americani) servirà a qualcosa, né risolverà il problema.

Nel film (come nella vita però) per Fuller non c’è  dunque pietà, ma nemmeno alcuna possibilità illusoria (se non quella di riuscire a svegliare dal torpore per lo meno lo spettatore che  “subisce” la visione e deve fare i conti con l’importante , fondamentale uso della “violenza” perché quello di Fuller è sempre e volutamente un cinema “violento”: del resto il corridoio degli “alienati che si comportano bene”, così immobili e indifferenti rispetto a ciò che accade loro intorno, non simbolizzano magnificamente l’America di quegli anni contro cui Fuller stava combattendo incitandola al risveglio?)

Forse allora si potrebbe meglio definire l’opera di Fuller più che una cronaca  “poliziesca”, una parabola contemporanea  rappresentata come “una favola drammaticizzata e privata del lieto fine” che mette in scena l’uccisione progressiva della coscienza civile degli uomini perpetrata dal potere.

Significative sono a tale riguardo proprio le tre scene delle “confessioni” (non trovo definizione migliore di questa per classificarle) in cui Barrett oppone alle drammatiche denunce dei tre “pazzi” (il virgolettato è d’obbligo) le sue meschine richieste di una verità che non dice nulla sulla vita autentica, ma che potrà pero – si badi bene – portarlo a vincere quel Pulitzer tanto agognato e che verrà poi proposta al consumo pubblico con gli onori del riconoscimento ufficiale di quel prestigioso premio giornalistico.

I temi che Fuller mette in campo, sono quindi tutti politici e attualissimi anche adesso: anticomunismo, militarismo, nazionalismo e razzismo. Lo fa utilizzando proprio le figure  emblematiche di Stuart,  Trent  e Boden, utilizza le loro contraddizioni,  i loro traumi e i loro deliri (e le tre scene corrispondenti sono davvero capitoli fondamentali per la comprensione dell’assunto)

Il film, proprio attraverso questa triplice testimonianza che si articola su più fronti, tutti di straordinario impatto, si risolve dunque  in un velenoso appello “drammaticizzato” alle coscienze addormentate, che sembra voler assumer eil senso di un vero e proprio “ultimatum”.

Potente e “seminale” come gran parte dell’opera del regista , Shock Corridor rappresenta forse davvero l’espressione massima del suo talento (un vero e proprio chef-d’oevre come lo definirono i francesi), un film che rimane impresso nella memoria proprio per la forza dirompente non solo del messaggio, ma anche delle immagini che ne potenziano la portata: Nervoso e incalzante nel suo incidere,  visionario e barocco nonostante la povertà dei mezzi a disposizione, contiene una sequenza assolutamente memorabile che ormai fa parte di quelle “cult” del cinema di ogni tempo: mi riferisco al “segmento” dell’incubo del giornalista  travolto dal temporale che distrugge il corridoio della clinica, girato a colori e in un cinemascope non decompresso che amplifica e rende tangibile la allucinata paranoicità di una mente ormai definitivamente devastata..

 

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