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Adele H., una storia d'amore

Regia di François Truffaut vedi scheda film

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La recensione su Adele H., una storia d'amore

di Lehava
6 stelle

"Quando due anime infine si sono trovate, si sono scoperte compatibili e complementari, hanno compreso di essere fatte l'una per l'altra, di essere, dunque, simili, si stabilisce tra loro per sempre un legame, ardente e puro, proprio come loro, un legame che inizia sulla terra e continua per sempre nei cieli... E' questo l'amore che tu ispiri in me..." Questo scriveva un giovane Victor Hugo alla donna della sua vita, Adèle Foucher. Moglie e madre, ma ahimé non sempre anima affine nel lunghi anni a venire di questo rapporto. E della storia. Poco importa in fondo: a volte azioni, decisioni, sentimenti si confondono e contraddicono. Difficile rintracciarli in un tempo e spazio fuori dall'intimità. Quel che resta, di sicuro, è l'intenzione. Consegnata alla letteratura. Immortale.

 

Nel 1955 la studiosa americana Frances Vernon Guille scopre a new York due volumi di diari di Adèle Hugo, ultimogenita di Victor e Adèle: scritti in un personalissimo codice, richiederanno 13 anni di lavoro per essere completamente decifrati. E' l'editore Minard di Parigi che si occupa della pubblicazione, nel 1968, del primo volume "Le journal d'Adèle Hugo". Altri ne seguiranno (1). La figura di questa giovane donna, nella penombra di un padre di tale peso ed importanza, e forse di una madre complessa (di cui porta il nome) comincia ad uscire dalle nebbie del biografismo. Sarà Jean Grualt, e Truffaut poi, a consegnarla alla storia condivisa, con "L'histoire d'Adèle H" film del 1975 incentrato sulla sua tragica vicenda psicologica.

 

E' evidente che a Truffaut non interessasse l'aderenza storica: è però necessario chiedersi, visionando questo lungometraggio, cosa interessasse al regista raccontare. Perché purtroppo, da qualsiasi lato si guardi l'opera, essa risulta decentrata rispetto al tema centrale. Monocorde e con una visione unilaterale e solitaria del tutto inverosimile. "Nessun uomo è un isola" mi verrebbe da citare: e anche se in tempi e spazi diversi noi siamo tutti fruttto di una corrispondenza sociale, anche fosse essa stata negata o violentata. Ritagliare un luogo psichico di un personaggio senza spiegarne appieno le connessioni pare un gesto più da superego registico che non un'operazione di narrazione.Un buon prodotto dunque, ben confezionato, ma inutile.

 

Adèle è una giovane ragazza che si trasferisce dall'Europa ad Halifax nella Nuova Scozia. Preso alloggio presso una casa privata, passa le sue giornate scrivendo.

La scrittura è evidentemente per lei una sorta di terapia psichiatrica: da un lato chiarisce intenzioni, emozioni, fatti e dall'altro enfatizza oltre ogni possibile realtà i sogni più assurdi. Non è una scrittura creatrice, non è scrittura fertile. E' per così dire passiva: subisce l'umore dell'autore. Resta imbrigliata alla contingenza immediata: tutto è istante in essa, nell'istante in cui è vissuto.

La "causa" di questo necessario rifugio in una sorta di flusso di coscienza ante tempore viene identificato dalla sceneggiatura nel puro ed esclusivo sentimento amoroso. Inutile, arrogante, puntiglioso in quanto del tutto non corrisposto. Se l'amore non è corrisposto, anche in modalità e stilemi personali e non condivisi, non è esattamente amore. Almeno non quello terreno ed imperfetto fra uomo e donna (tralasciamo l'empireo ieratico dei sentimenti universali, religiosi o meno). Si è parlato spesso, nella critica, dell'Amore per l'Amore come sentimento assoluto, che tende ad annientare ciò che sta fra un due persone in quanto l'amato è solo un mezzo per scatenare un'immaginazione sfrenata che colma il vuoto interiore, infliggendo sofferenze ai limiti della sopportabilità (2). Questo modo di intendere rasenta la malattia mentale vera e propria: se lo si vuole mostrare o raccontare andrebbe sfaccettato perchè in fondo esso è esito finale e drammatico di un percorso intimo complicato. Lo sguardo del regista è qui invece limitato ed impacciato mai riuscendo appieno a rivelarci il cuore, della protagonista come della vicenda. Adèle è dipinta, in abbondanti primi piani ed estemporanei monologhi, come una capricciosa ragazzetta per la quale non si può che provare inaudita antipatia: nullafacente e mantenuta dalla ricca famiglia, passa le sue giornate dicendo bugie a sé stessa ed agli altri. Nel tentativo, oggettivamente stupido, di riaccendere un sentimento morto o forse mai neppure nato. Il tragico annegamento della sorella che ritorna periodicamente negli incubi, sembra una misera "scusante" senza peso specifico alla mancanza di equilibrio emotivo e psichico. Le condizioni di salute di Adèle, i rapporti con la famiglia di origine (il padre, che a poco a poco si svelerà presenza ingombrante; la madre che resta un mistero; i fratelli non menzionati, e la sorella amata ed odiata, figlia prediletta prematuramente scomparsa), il naturale desiderio di essere apprezzata e ben voluta (e forse anche qui l'inadeguatezza verso le altitudini di intenti e di corrispondenze vissute nell'esperienza familiare?) le giuste aspirazioni di emancipazione come donna in un mondo profondamente maschilista - aspirazioni mortificate, è ovvio! vedasi anche le discussioni riguardanti i suoi lavori musicali - restano sullo sfondo.

Il punto di vista è esclusivo dall'interno e dall'esterno: Adèle che guarda la sua vita e noi che non possiamo che guardare alla vita di Adèle (visto che tutto il resto è inesistente) nell'unica linea interpretativa proposta: l'ossessione amorosa.

Truffaut che due anni dopo confesserà di essere "l'uomo che amava le donne" a suo modo forse le amava (dubito fortemente) ma di certo non si sforzava di capirle! "Adele H" è un film al limite estremo del misogino dove la sfera emozionale, intellettuale, corporale di una donna viene limitata al solo rapporto (più o meno positivo) con la controparte maschile. Sia essa amante o padre. Un lavoro di instrospezione fine a sé stesso dove la pochezza della protagonista femminile stride contro la convinzione ideale di Pinson - che avrebbe potuto sposarla ottenendo denaro e prestigio sociale e che invece opta per la propria libertà individuale sempre e comunque - e contro l'affetto disinteressato di M. Hugo - che continua ad implorarla di ritornare a casa, disposto al perdono piuttosto che alla soddisfazione di ogni sua richiesta. Timido il tentativo, a circa metà dell'opera, di raddrizzare il tiro aggiungendo elementi di spessore sociale, politico, speculativo - in una parola spirituale - alla figura di Adèle, attraverso la declamazione della lettera "alle sue sorelle" (per altro inventata di sana pianta e la "leggenda" dice, aggiunta all'ultimo minuto nella sceneggiatura). O la affermazione di "essere figlia di padre sconosciuto". La sospirata universalizzazione del dolore, riduttivamente semplificato ad "amore", purtroppo non avviene. Ed il film si trascina verso un finale di non facile collocazione e spiegazione - viste le premesse - esemplificato dalla splendida scena (veramente una delle più belle scene che abbia mai visto al cinema) nella quale la protagonista, in un assolato vicolo di un villaggio caraibico, esausta ed oramai inerme, passa ed ignora l'oggetto del suo desiderio. La follia. Solo che nella nebbia delle coste canadesi (ritrovate in una Guernsey senza tempo) le motivazioni si erano perse un'ora prima. Ed il tutto assume un tono talmente pomposo da rasentare il ridicolo. Assente, del tutto assente, la credibilità.

Sceneggiatura così così: troppe parole - come nei dialoghi banalissimi fra Adéle e Pirson - o troppo poche.

Regia solida, un po' noiosa ma con colpi di genio sul finale come spesso accade quando si ha a che fare con Truffaut. Sbagliatissima la scelta di Isabelle Adjani: brava, di una bellezza strabiliante, ma troppo, troppo giovane. Un sentimento così straziante insieme alle ragioni psicologiche e sociali di una rincorsa al matrimonio possono essere plausibili solo in una donna di mezza età come la biografia di Adèle Hugo conferma (aveva trentatre anni quando scappò per inseguire il tenente). Tra l'altro, malignamente, si potrebbe osservare come la vera ossessione sfaccettata qui presente sia soprattutto quella del regista per la sua protagonista! Un tete a tete stancante che mette a dura prova la capacità di sopportazione dello spettatore. Quando invece, per assurdo, i comprimari offrono tutti prove godibili (Sylvia Marriott e Bruce Robinson) .

Molto bella la fotografia di Nestor Almendros così come le locations e la scenografia (anche qui, il finale è un plus. In pochi fotogrammi tutto un mondo agli antipodi, in un tropico alieno).

Una menzione all'utilizzo che delle musiche di Maurice Jaubert che qui sono pertinenti come non mai,  per fortuna mantenendo un certo "vigore espressivo" che non aumenta la mollezza dell "effetto melò" già straripante.

 

"Per me un lieto fine non è una coppia che si ritrova, che si riunisce, ma una coppia che va fino in fondo.” (Francois Truffaut)

 

(1) Le Journal d’Adèle Hugo, Premier volume : 1852, introduction et notes par Frances Vernor Guille, Deuxième volume : 1853, présenté et annoté par Frances Vernor Guille, Troisième volume : 1854, présenté et annoté par Frances Vernor Guille, Quatrième volume : 1855, présenté par Frances Vernor Guille, annotation revue et complétée par Jean-Marc Hovasse, Lettres modernes Minard, coll. « Bibliothèque introuvable », n° 3, n° 5, n° 12 et n° 20, 1968, 1971, 1984 et 2002 ; Cinquième volume : 1856, à paraître.

(2) "Il mito dell?' Amore fatale", Enrichetta Buchli (2006), Milano, Baldini Castoldi Dalai editore.

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